Ci sono una quantità di banalità che si possono dire di Berlino la maggior parte delle quali sono già state dette e albergano nel retrocranio di chiunque. Anche di chi, qui, non ha mai messo piede.
Eppure quando pensi di averla capita, questa città si ribella e ti rovescia la prospettiva. Perché questa città è tutto e il contrario di tutto. Così sono tre giorni che me ne sto in silenzio ad osservarla. Berlino è la città meno tedesca della Germania ed è un bell’esercizio di mescolamento, non a caso il primo obiettivo di normalizzazione per i nazisti.
Berlino nel 1700 aveva un berlinese su cinque con almeno un antenato francese e una delle più grandi comunità ebraiche accorsi in uno dei primi esperimenti di riurbanizzazione ad invito che si ricordi nella storia.
Berlino ospita nel proprio centro il Ground Zero del novecento. Somiglia a New York oggi, città ferita sul nascere del nuovo millennio. Nella voragine che divideva Berlino est e Berlino Ovest, due modi di intendere il mondo nel secolo appena passato. In mezzo il nulla cosmico, un buco nero avvolto nel filo spinato.
Oggi su quello spazio da risanare e curare, accanto al Bundestag e al monumento all’architettura contemporanea che è Postdamer Platz c’è il monumento all’Olocausto. Perché questa città ha subito tutto l’accanimento del secolo scorso su di se, più di qualsiasi altra città. Berlino oggi è un museo a cielo aperto del secolo appena trascorso. Berlino è il novecento da attraversare per non dimenticare. Così su quella terra della separazione l’architetto Peter Eisenmann ha occupato il vuoto con una distesa di parallelepipedi di pietra. Si passeggia per vicoli stretti, come se fosse un piccolo paese del sud. Accade che entri per passeggiare in silenzio in un labirinto scuro, senza alcuna meta, sapendo che le vie di fuga sono perpendicolari tra loro e visibili. Ti scopri a giocare a nascondino. A sorridere dei bambini che si rincorrono, dei baci che si nascondono. Un monumento che riassume Berlino, e con essa la Germania, in modo perfetto: la ricongiunzione assoluta. Di Berlino Ovest con Berlino Est per volume interposto, della colpa con il perdono per la memoria dell’olocausto, del dolore attuale per quanto avvenuto con la gioia di chi si lascia trascinare dalle infinite possibilità dell’opera. Tutto il novecento è in mezzo a quei vicoli. Basta saperlo ascoltare per entrare davvero nel III millennio. La rielaborazione delle cose accadute, quella cosa che noi italiani non sappiamo fare che dopo un minuto dalla caduta del fascismo nessuno era mai stato fascista. Qui se lo ricordano di essere stati nazisti. Di avere taciuto, lasciato fare, visto accadere. Solo così un popolo cresce. Ammettendo e accettando e perdonandosi.
Il viaggio a Berlino continua con tappe casuali ma fortemente connesse a dimostrazione che la città pulsa di questa ansia del superamento della ricongiunzione. Il Museo Ebraico di Libeskind, lungo le tre vie: della continuità, dell’esilio e dell’olocausto. L’unico museo a me noto che consente l’esperienza del dolore, per quanto questo possa essere possibile non solo attraverso le immagini che tutti conosciamo dei lager, ma passeggiando per il giardino dell’esilio o restando chiusi nella torre dell’olocausto, con la porta che fa clanc dietro le spalle e una fessura di luce altissima, sopra la testa. Questa volta conoscevo la sensazione. Poi un vecchio ufficio postale, un enorme palazzo che sembra appena uscito da un bombardamento, nel cuore del vecchio ghetto. Una mostra video-fotografica sul terrorismo: dal sequestro degli atleti israeliani, passando per Moro fino alle Torri Gemelle. E poi una sera un film scoperto per caso e visto dalla vetrina, con il naso a fumare fiato sul vetro: il Libano dove i palestinesi, come avveniva per gli ebrei durante il nazismo, non possono fare tutti i mestieri. Gliene sono negati circa 70, non possono avere alcuna proprietà e non possono ricostruire le proprie case nei campi al di fuori dei limiti originari del 1948. La storia si ripete altrove e se ne parla proprio nel cuore della memoria. E poi gli squatter di Tacheles che rappresentano l’esplosione del dolore attraverso l’arte e il design, annidati in una nuvola di fumo di marijuana in un palazzo industriale a più piani e dove non ti guardano le scarpe come accade in certi centri sociali italiani più selettivi di un locale per vip se non sei omologato allo stile di casa. La capacità che ha questa città di tenere dentro poi di esplodere. Occidentale e razionale, orientale e creativa. Grigia e colorata insieme. Tedesca e mediterranea. Composta e fricchettona. Ordinata e sporca. Ciclabile e capitale dell’auto. Efficiente e lenta. Appena stai per darle una definizione, le parole si sgretolano davanti ai Mc Donalds costruiti a sfregio nei luoghi simbolo dell’est.
Trovate tutto qui. Ma quello che c’è qui, di già, è anche il futuro. Perché questa città malgrado il peso ed un livello di disoccupazione ed alcolismo elevatissimi, guarda avanti con indulgente autoironia: in un locale per distinguere i bagni delle donne da quelli degli uomini troneggiano due gigantografie della Merkel. Una come la conosciamo. Ed una con i baffi.