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Berlino: una prigione della Stasi

Creato il 06 giugno 2015 da Patrickc

La banalità del male al Gedenkstätte Berlin Hohenschönhausen.

Case basse in fila, alberi, parchi. E poi il negozio di quartiere, il bar locale. Uno potrebbe anche immaginare di vivere qui alle porte di Berlino, con una ragazza, un cane e ogni giorno mezz’ora di tram e magari un cambio di metropolitana per andare nel Mitte o a Kreuzbeg. Dissolvenza e stacco, come in un film. Ora sono poco distante, in una stanza spoglia che potrebbe essere quella della mia vecchia scuola media. Arredamento degli anni 70 o 60, non sono nemmeno sicuro. E poi tavoli di fòrmica o in una sorta di finto legno, una lampada anonima, un mangianastri, una specie di radio, un vecchio telefono. Giallino, verdolino, marrone. Qualcosa di rosso.  Tutto triste, come in certi uffici pubblici forse dimenticati dalla sede centrale, in cui ogni cosa contribuisce a un’atmosfera cadente, dove nulla cambia da decenni a parte i moduli da compilare. Mi ricorda l’ultima volta che sono stato alla Motorizzazione.

Una stanza per interrogatori, Hohenschonhausen (foto di Patrick Colgan, 2015)

Una stanza per interrogatori, Hohenschonhausen
(foto di Patrick Colgan, 2015)

Una stanza per interrogatori, Hohenschonhausen (foto di Patrick Colgan, 2015)

Una stanza per interrogatori, Hohenschonhausen (foto di Patrick Colgan, 2015)

Prigioni, Hohenschonhausen (foto di Patrick Colgan, 2015)

Prigioni, Hohenschonhausen (foto di Patrick Colgan, 2015)

Se mi avessero trasportato di nascosto e incappucciato, come la gente che non più di trenta anni fa arrivava qui, non avrei idea del segreto che questi tristi locali celano. Qui c’era una prigione della Stasi, la polizia segreta della Germania Est e queste, in cui mi trovo, sono le sale per gli interrogatori. Sono brutte, banali, anonime. Il male non deve avere per forza un aspetto truce, potente: più spesso ha l’aspetto apparentemente innocuo e banale di una scuola, quello burocratico di un ufficio. La tortura è ridotta a un semplice fatto amministrativo. Il concetto di banalità del male mi è improvvisamente più chiaro mentre ascolto la nostra guida che ci sta accompagnando in una visita guidata quello che oggi  è un museo memoriale, Gedenkstaette Berlin Hohenschonhausen. E’ una sensazione strana quella che provo. Berlino è una città così piena, così viva e diversa oggi, che ti dimentichi di continuo della sua storia così dolorosa fino a un tempo così recente.

Prigioni, Hohenschonhausen (foto di Patrick Colgan, 2015)

Prigioni, Hohenschonhausen (foto di Patrick Colgan, 2015)

Prigioni, Hohenschonhausen (foto di Patrick Colgan, 2015)

Prigioni, Hohenschonhausen (foto di Patrick Colgan, 2015)

Dagli uffici scendiamo alle prigioni, le più anguste, buie e malsane risalenti all’ottocento, mentre ci vengono raccontate alcune storie di prigionieri che si sono intrecciate fra queste mura, bordate da fili elettrici: non è un impianto elettrico fatto in modo approssimativo, con i cavi scoperti: è l’allarme, che poteva essere lanciato da qualsiasi punto, semplicemente staccando due connettori. Non soffro di claustrofobia, ma qui è tutto così opprimente, angusto, che anche oggi che tutte le porte sono aperte è un posto che fa paura.

La guida è un uomo di circa 45 anni. Con lui passano due, tre ore senza che ce ne accorgiamo. Lo sommergiamo di domande a cui risponde con grande precisione, specie quelle sulla visione del mondo del Socialismo reale, sui metodi della polizia segreta, sulle delazioni sul clima di sospetto, sulle confessioni estorte. Alla fine ci rivela di essere nato e cresciuto nella Germania Est. Fino alla Caduta del muro è stato in posizioni di vertice nelle formazioni giovanili del partito.  Poi ha cambiato idea e ora fa la guida in questo posto. Ma, ammette, “è stato un caso”. Se la storia della Germania est fosse proseguita forse avrebbe continuato a far carriera in politica. Forse non avrebbe mai messo in discussione quello in cui credeva; anzi, forse avrebbe lavorato lì. E magari avrebbe abitato da queste parti, dove molti sapevano quello che succedeva in questi uffici nascosti fra le palazzine e le villette, ma nessuno ne parlava. “Lì — dice indicando genericamente la direzione delle case basse, dei parchi, quelle che guardavo prima di entrare —, in quelle abitazioni, abitava la gente che lavorava qui. Molti ci vivono ancora”.

Prigioni, Hohenschonhausen (foto di Patrick Colgan, 2015)

Prigioni, Hohenschonhausen (foto di Patrick Colgan, 2015)

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