Bersaneide
Creato il 02 marzo 2013 da Bernardrieux
@pierrebarilli1
A qualcuno non piacerà, ma dobbiamo rendere onore a Carlo De Benedetti e alla sua perspicacia. Nel 2010, interpellato su Pier Luigi Bersani che l'anno precedente era diventato segretario del Pd scalzando Dario Franceschini, l'Ingegnere si espresse così: «Bersani è stato un eccellente ministro. Ma come leader del Partito democratico è totalmente inadeguato». Confesso che anche a me la bocciatura apparve eccessiva. De Benedetti aveva sparato a Bersani due colpi alla nuca.
Con un avverbio senza scampo, «totalmente», e un aggettivo micidiale, «inadeguato». Conoscendo bene l'Ingegnere, mi sembrò soltanto uno dei molti verdetti che ama stilare, con la boria del potente che si considera un vincitore perenne. E giudica il prossimo con arroganza un po' sadica. Ho cominciato a pensare che forse De Benedetti aveva ragione qualche mese dopo.
Accadde la sera che madama Gruber, sempre splendida nel completino Armani, a Otto e mezzo su La7 ebbe di fronte Bersani. La rossa Lilli chiese al segretario del Pd che cosa replicava all'Ingegnere. Lui cominciò a bofonchiare anche più del solito. Borbottò: «Quello di De Benedetti è un giudizio legittimo, sul quale non concordo, forse dettato dal fatto che non è stato lui a scegliermi come segretario del Pd, e bla, bla, bla...». Avrei voluto gridare a Bersani: un leader politico non replica con tanta pavida prudenza, deve tirare un cazzotto verbale all'Ingegnere.
E anche al suo giornalone-partito, la Repubblica, che insieme a lui pretende di guidare la sinistra senza farsi eleggere. Ma il povero Pigi si guardò bene dal farlo. Se avesse avuto tra le dita il sigaro toscano, vietato negli studi televisivi, forse lo avrebbe ingoiato, per aiutarsi a tacere.
Mi sono rammentato della sentenza dell'Ingegnere il pomeriggio di martedì quando, con un giorno di ritardo, Bersani si è deciso ad affrontare la prima conferenza stampa dopo il voto. L'esperienza mi ha insegnato che la faccia dei politici rivela sempre il loro stato d'animo. Bersani mi è sembrato un uomo perso.
Era stanco, nervoso, ancora choccato dalla sconfitta o dalla non-vittoria. Ho pensato che anch'io, come tanti altri, avevo giudicato Silvio Berlusconi un morto che pretendeva di camminare. Ma forse il morto vero era il suo avversario, un Bersani alle prese con un kappaò terribile. Sono stati i suoi elettori a mandarlo al tappeto. Il passivo del 24-25 febbraio è orrendo per il Pd. Nelle politiche del 2008 aveva conquistato 12 milioni e mezzo di voti, il 34,2 per cento. Adesso si ritrova con 8 milioni e 600 mila suffragi, il 25,4 per cento, con una perdita secca di quasi 4 milioni di votanti.
A Bersani sono sfuggiti di mano anche molti elettori di aree cruciali: meno 300 mila in Emilia Romagna, idem in Toscana, meno 400 mila nel Lazio, meno 330 mila nella Puglia di Nichi Vendola. Tutta colpa di Grillo? In parte sì. Ma il vero fattore negativo si è rivelato la campagna elettorale condotta da Bersani. Prima o poi, i politologi diranno la loro. Per il momento la cronaca suggerisce qualche spiegazione. La famose primarie dell'autunno 2012 erano state una trappola congegnata al solo scopo di battere Matteo Renzi. Eppure il vertice del Pd ne aveva ricavato una sicumera sfrontata. Bersani si affrettò ad annunciare che il suo partito era «una squadrone», pronto «a una nuova avventura: la conquista del governo».
Poi arrivò la droga dei sondaggi. Dicevano che il Pd stava sul 36 per cento e la coalizione con Sel e i socialisti addirittura al 43 per cento, ventidue punti in più rispetto al Pdl di Berlusconi e soci. Queste previsioni spinsero Bersani a concepire la campagna elettorale come una guerra di posizione. Al riparo di uno slogan da vittoria annunciata, «L'Italia giusta», bastava rimanere fermi in trincea per incassare i voti di chi stava lasciando Berlusconi. E Grillo? Al Nazareno, la centrale democratica, ruggivano: «Chi se ne frega di quel comico esagitato! Comunque vada, il governo lo faremo noi». Tuttavia, la mela pronta a essere mangiata nascondeva un verme.
Lo ha spiegato a Fabio Martini della Stampa un dirigente politico che la sinistra ha dimenticato con troppa fretta, Iginio Ariemma, il portavoce di Achille Occhetto: «Dare per scontata la vittoria è stato uno di quegli errori che la sinistra ha sempre cercato di evitare. Dal momento che così liberi due sentimenti. Da una parte, ti viene addosso il voto di protesta. Dall'altra la prospettiva di successo induce i più incerti a votare per liste diverse, perché tanto si vince lo stesso». L'errore fatale di Bersani è stato di mettersi con Vendola e di sottovalutare Grillo.
Eppure era facile non compiere questi passi falsi. All'inizio di febbraio, tre settimane prima del voto, tutti i sondaggi dicevano che il Napoleone stellare stava crescendo. Aveva già superato il 17 per cento e si avviava a raggiungere quota 20. Nel vertice del Pd pochi se ne curavano. Max D'Alema e Walter Veltroni lanciavano segnali d'allarme, ma i pasdaran del cerchio magico di Pigi alzavano le spalle. Adesso la frittata è fatta.
E sta seminando il caos nel vertice democratico. Bersani si è dichiarato disposto a trattare con Grillo, però è stato subito respinto. Napoleone lo ha irriso con disprezzo. Definendo Pigi un morto che parla. Oppure, nel caso migliore, uno stalker, un molestatore che fa proposte indecenti agli eletti delle Cinque stelle. Il disordine sotto le tende democratiche acceca troppi dirigenti. Non possiamo allearci con Grillo? Allora andiamo a votare di nuovo, il più presto possibile.
Ma un dirigente ostile al voto anticipato mi spiega quale sia l'ostacolo più forte al ricorso alle urne: «Il voto di febbraio ha rinnovato in modo profondo la nostra rappresentanza in Parlamento. Oggi abbiamo 297 nuovi deputati e 109 nuovi senatori. È un piccolo esercito di 406 eletti. Quanti di loro sarebbero disposti a rinunciare al posto appena conquistato? È facile immaginare che risulterebbero pochi, molto pochi». L'unica prospettiva concreta è di dar vita, subito, senza tentennare, a un governo di emergenza con Berlusconi.
Il povero Bersani tentenna. Sa bene che il suo partito considera da sempre il Cavaliere un diavolo immondo. Teme che un'intesa con il Pdl possa spaccare i democratici. E forse si augura che sia Giorgio Napolitano a obbligarlo all'accordo. Il leader del Pd scopre di trovarsi prigioniero delle circostanze che lui stesso ha creato. E forse si rende conto che a rischiare il disastro non è soltanto l'Italia, ma la sua ben più piccola sorte personale. Nel partito crescono i dissensi che riportano a galla lo spettro di Matteo Renzi.
Ci sono dettagli da far tremare. Il sindaco di Bologna, Virginio Merola, si è già schierato con il compagno Matteo. Uno dei suoi assessori, Luca Rizzo Nervo, ha scritto su Facebook: «Penso che Bersani dovrebbe presentare le dimissioni da segretario del Pd». E le file dei dissidenti si stanno ingrossando giorno dopo giorno. La nemesi delle primarie torna ad agitare le notti di Pigi. Insieme all'incubo di trovarsi all'ultimo giro da leader democratico. E riporta alla memoria una vecchia teoria matematica, quella chiamata di Peter. Sostiene che tutti gli esseri umani prima o poi scoprono di avere di fronte a sé la curva della competenza. Se la oltrepassi, sei finito, perché diventi incompetente a onorare l'impegno o l'incarico che hai ricevuto. E cadi di errore in errore. È il caso di Bersani? Lo scopriremo presto.
Giampaolo Pansa per "Libero"
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