C’era una volta “Fabbrica Italia”. Era il «più straordinario piano industriale che il Paese abbia mai avuto» dichiaravano Elkann e Marchionne nel 2010. Oggi dicono che era solo una «dichiarazione d’intenti». E c’è, attorno a questo «caso» un luogo comune ricorrente. Le cose sarebbero andate male soprattutto per colpa della Fiom-Cgil, anche se ora «riabilitata» a Pomigliano da un tribunale. Un’eco di queste polemiche la troviamo sul sito «first on line», molto ben curato da Ernesto Auci e Franco Locatelli, dedicato ai problemi dell’economia (www.firstonline.info). Qui si parla de «La scommessa di Marchionne e il no di Fiom». Lo spunto è dato da un recente libro dello studioso Giuseppe Berta: «Fiat-Chrysler e la deriva dell’Italia industriale» (Il Mulino). Scrive Auci che nella lunga analisi di Berta si affrontano tra l’altro anche i problemi sindacali. Affrontati in modo diverso negli Usa e in Italia. Il sindacato americano, infatti, sarebbe passato da «una posizione di pura controparte, ad una condivisione degli obiettivi aziendali». Il modello tedesco, insomma. In Italia la Fiom avrebbe impedito tale svolta. Un modo per far coincidere il «modello tedesco» con il rispetto di accordi separati, con conseguente “cacciata” della Fiom inadempiente. I risultati produttivi, comunque, non risultano esaltanti. “Fabbrica Italia”, dopo tante traversie, referendum, ricorsi giudiziari, è fallita. E perché la Fiom avrebbe intrapreso questa strada suicida e contraria al “modello tedesco”? Il libro di Berta, sintetizza Auci, spiega come il sindacato di Landini abbia scelto di «rinnovare la propria identità antagonistica». Eppure la stessa Fiom, vien da pensare, in molte altre aziende non si è sottratta alla contrattazione e alla “partecipazione”. La risposta sta, secondo l’autore del libro, nel fatto che la Fiat offriva «una tribuna mediatica così vasta da poter essere sfruttata per fini che sono al di fuori della stretta logica sindacale ma che attengono all’affermazione di un progetto politico». Un’accusa ricorrente contraddetta dalla mancata fondazione di un partito da parte di Landini. Sospetti di questo tipo non aiutano, ad ogni modo, la ricerca di una soluzione. Sarebbe necessario aprire una riflessione più ampia. Può anche darsi che la Fiom, come dicono alcuni anche in Cgil (e nella stessa minoranza Fiom), avrebbe fatto bene a sposare una linea “entrista”, magari con una firma tecnica agli accordi, come si era suggerito. Resta il fatto, ben più rilevante, che quel grandioso progetto di “Fabbrica Italia” è andato in fumo. E allora tutti dovrebbero ripensare le proprie posizioni. Non basta la via giudiziaria, non basta aspettare una legge sulla rappresentanza ma non basta nemmeno cullarsi su accordi separati che coincidono con un decadimento industriale.
Magazine Lavoro
C’era una volta “Fabbrica Italia”. Era il «più straordinario piano industriale che il Paese abbia mai avuto» dichiaravano Elkann e Marchionne nel 2010. Oggi dicono che era solo una «dichiarazione d’intenti». E c’è, attorno a questo «caso» un luogo comune ricorrente. Le cose sarebbero andate male soprattutto per colpa della Fiom-Cgil, anche se ora «riabilitata» a Pomigliano da un tribunale. Un’eco di queste polemiche la troviamo sul sito «first on line», molto ben curato da Ernesto Auci e Franco Locatelli, dedicato ai problemi dell’economia (www.firstonline.info). Qui si parla de «La scommessa di Marchionne e il no di Fiom». Lo spunto è dato da un recente libro dello studioso Giuseppe Berta: «Fiat-Chrysler e la deriva dell’Italia industriale» (Il Mulino). Scrive Auci che nella lunga analisi di Berta si affrontano tra l’altro anche i problemi sindacali. Affrontati in modo diverso negli Usa e in Italia. Il sindacato americano, infatti, sarebbe passato da «una posizione di pura controparte, ad una condivisione degli obiettivi aziendali». Il modello tedesco, insomma. In Italia la Fiom avrebbe impedito tale svolta. Un modo per far coincidere il «modello tedesco» con il rispetto di accordi separati, con conseguente “cacciata” della Fiom inadempiente. I risultati produttivi, comunque, non risultano esaltanti. “Fabbrica Italia”, dopo tante traversie, referendum, ricorsi giudiziari, è fallita. E perché la Fiom avrebbe intrapreso questa strada suicida e contraria al “modello tedesco”? Il libro di Berta, sintetizza Auci, spiega come il sindacato di Landini abbia scelto di «rinnovare la propria identità antagonistica». Eppure la stessa Fiom, vien da pensare, in molte altre aziende non si è sottratta alla contrattazione e alla “partecipazione”. La risposta sta, secondo l’autore del libro, nel fatto che la Fiat offriva «una tribuna mediatica così vasta da poter essere sfruttata per fini che sono al di fuori della stretta logica sindacale ma che attengono all’affermazione di un progetto politico». Un’accusa ricorrente contraddetta dalla mancata fondazione di un partito da parte di Landini. Sospetti di questo tipo non aiutano, ad ogni modo, la ricerca di una soluzione. Sarebbe necessario aprire una riflessione più ampia. Può anche darsi che la Fiom, come dicono alcuni anche in Cgil (e nella stessa minoranza Fiom), avrebbe fatto bene a sposare una linea “entrista”, magari con una firma tecnica agli accordi, come si era suggerito. Resta il fatto, ben più rilevante, che quel grandioso progetto di “Fabbrica Italia” è andato in fumo. E allora tutti dovrebbero ripensare le proprie posizioni. Non basta la via giudiziaria, non basta aspettare una legge sulla rappresentanza ma non basta nemmeno cullarsi su accordi separati che coincidono con un decadimento industriale.
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