Il Canto del Glorioso Signore
Il testo della Bhagavad- Gītā – che sarebbe stato aggiunto alla grande epopea nello stadio della sua formazione detto Bhārata – si presenta in forma di colloquio tra l’eroe Arjuna e il suo suta/ auriga Kṛṣna, prinicipe e uomo- dio. Tale dialogo è a sua volta inserito in un altro dialogo: quello fra il re cieco Dhrtarastra e il suo suta Saņjaya, al quale spetta il compito di riferire al proprio sovrano quando accade sul campo di battaglia.
Arjuna (“il bianco”) e Kṛṣna (“il nero”). Essi non sono soltanto, rispettivamente, il figlio di Indra e l’Avatara di Viṣņu, bensì, nello stesso tempo, le reincarnazioni di Nara (“uomo”) e Nārāyaņa (“cammino degli uomini”), antica coppia di guerrieri- asceti, figli di Dharma e Ahiṃsā (personificazione della non- violenza). Essi sono un solo essere in due persone, che promanano entrambe da Viṣņu.
Il contenuto dottrinale della Bhagavad- Gītā è, insieme, metafisico ed etico: infatti, la Gītā contiene insegnamenti segreti (Upaniṣad) che riguardano la conoscenza del Brahman [brahma- vidyā] e la dottrina dello yoga [yoga- śāstra], vale a dire gli aspetti teoretico e pratico dell’esperienza religiosa.
L’opera, composta probabilmente attorno all’inizio del II secolo a.C., ci è pervenuta nella redazione nota come “vulgata”, fissata- probabilmente verso la fine del VII secolo d.C.- da Śaṅkara, il quale vide in essa una “collezione della quintessenza del significato dell’intero Veda”.
La Gītā ci mostra Kṛṣna che si manifesta direttamente ad Arjuna come Colui che abbraccia l’intera realtà, sicchè la sua trasfigurazione e il suo insegnamento costituiscono di fatto un tipo nuovo di rivelazione: personale, storica e originale.
Con la straordinaria autorivelazione di Kṛṣna come divinità piena di amore per i suoi devoti e per tutti gli esseri, la Bhagavad- Gītā introduce definitivamente l’idea della bhakti (cioè del rapporto di amorosa devozione e di partecipazione con una divinità personale) nell’orizzonte religioso della rinnovata tradizione brahmanica, operando in qualche modo un compromesso fra l’esigenza ineludibile di operare nel mondo, e le nuove istanze dell’ascesi e della rinuncia, che portano a proporre come obiettivo l’abbandono completo dell’azione. Il vecchio sistema brahmanico, avendo ravvisato nell’azione la causa del vincolo alle rinascite, dal quale l’uomo desidera affrancarsi con tutte le proprie forze, si era impegnato a ricercare una via che conducesse a tale riscatto, e l’aveva individuata in una serie di “atti” aventi valore rituale, eppure non per questo meno vincolanti, giacchè- come aveva mostrato il Buddha- in qualsiasi atto umano si annida il desiderio, e il desiderio è la radice di ogni male. Insomma, la “cura” proposta dagli antichi brahmani era la malattia stessa. Dal momento che, però, non è possibile sfuggire completamente all’azione, era necessario trovare il modo di agire senza contrarre legami, di sopprimere cioè quella caratteristica intrinseca dell’azione che la trasforma in un vincolo e che consiste nel desiderio.
È da questa riflessione che scaturiscono il tema centrale e il filo conduttore dell’intera Gītā, la quale individua nell’azione priva di attaccamento ai suoi frutti il vero yoga, la via maestra che può consentire all’uomo di passare attraverso l’esperienza terrena senza esserne contaminato e senza contrarre legami che gli impediscano di raggiungere il fine ultimo dell’unione con Dio.
Il dubbio di Arjuna, rispetto allo scendere o meno in battaglia contro i suoi fratelli e amici, offre a Kṛṣna l’occasione di enunciare due principi fondamentali: anzitutto, che la realtà spirituale presente in ciascun uomo non muore col corpo, ma gli sopravvive; in secondo luogo, che bisogna compiere il proprio dovere. È questo il tema dibattuto più a lungo, il tema che, a causa delle sue molteplici implicazioni, rende necessario un intervento dall’alto. Infatti l’opposizione dialettica fra azione e rinuncia ha bisogno di trovare un punto fermo a cui aggrapparsi per essere risolta; e lo trova nella suprema Realtà inalterabile, la quale, però, d’un tratto perde i contorni indefinibili che le avevano attribuito le Upaniṣad per assumere un volto: quello di una persona divina che si rende garante della salvezza del proprio devoto.
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