Adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Alessandro D’Avenia (edito da Mondadori), sceneggiatore del film insieme a Fabio Bonifacci, Bianca come il latte, rossa come il sangue segna il ritorno sul grande schermo di Giacomo Campiotti dopo una serie di realizzazioni televisive, un regista che sin dagli esordi (Corsa di primavera, ’89; Come due coccodrilli, ’94), ha saputo raccontare con una certa sensibilità la delicata fase dell’adolescenza, particolare periodo, dalla durata variabile, la cui tragicità è data dalla consapevolezza di dover “fare fuori” il bambino che si è stati per iniziare ad a avvicinarsi al mondo degli adulti, tra inevitabili incomprensioni ed assunzioni di responsabilità.
Filippo Scicchitano
Considerando queste buone premesse, confesso di aver avvertito una certa difficoltà nel recensire la pellicola in questione, non tanto riguardo il target di riferimento, prettamente adolescenziale, come l’opera d’origine, ma in particolare per le modalità messe in atto da Campiotti nel visualizzare la narrazione.Ho trovato, infatti, allo stesso tempo pregio e limite essenziale la scelta di assecondare l’adesione dello script verso una visione soggettiva, per cui ogni cosa appare filtrata attraverso gli occhi del protagonista Leo (Filippo Scicchitano), sedicenne al terzo anno di liceo che vive a Torino, città trasformata in una sorta di teatrale microcosmo dove si staglia la sua visione della vita, essenzializzata nel bi-cromatismo bianco/rosso.
Gaia Weiss
Se il primo rappresenta qualcosa di negativo, il nulla, l’ignoto, l’indefinito, quindi anche qualcosa di cui si può avere paura, il secondo, viceversa, è vivo, il colore del sangue che scorre, dell’amore e, per restare in tema, dei capelli della ragazza di cui Leo è innamorato (o pensa di esserlo), Beatrice (Gaia Weiss), alla quale però non è mai riuscito a dichiararsi, nonostante gli incoraggiamenti dei suoi più cari amici, Niko (Romolo Guerreri) e Silvia (Aurora Ruffino), la quale a sua volta è segretamente invaghita del nostro, dai tempi di una gita al tempo delle medie (a Venezia, ca va sans dire). Ma la conoscenza fra Leo e Beatrice assumerà un tragico risvolto, la fanciulla è infatti malata di leucemia, una scoperta che costringerà il ragazzo a mettere in atto delle scelte ben precise, in qualche modo incoraggiato dai suoi attoniti genitori, curioso connubio fra bonomia (Flavio Insinna) ed apprensione (Cecilia Dazzi), e dal professore di Lettere in supplenza (Luca Argentero).Luca Argentero
Bianca come il latte, rossa come il sangue ha dalla sua una regia piuttosto agile, “fresca”, diretta, a volte appesantita da inutili “voli pindarici”, ma che non riesce a dare una ben precisa connotazione alla storia raccontata: i primi trenta minuti sono persi nel seguire, con tanto di voce off in sostituzione alla narrazione in prima persona del romanzo, il “cazzeggio senza motivo” del protagonista, per quanto ben interpretato da Scicchitano (ma dopo Scialla!, il giovanotto è già a rischio dipendenza mono ruolo), dove interessanti tematiche o personaggi degni di maggiore caratterizzazione si perdono tra i rivoli di una stilizzazione programmata, in primo luogo il professore cool reso con astratta discontinuità liberal da Argentero (nel romanzo, dove viene denominato “sognatore”, riveste il ruolo di guida ispiratrice), cui fanno buona compagnia babbo Insinna e mamma Dazzi bonarie macchiette.Aurora Ruffino
I dialoghi riprendono per lo più frasi d’autori famosi, ma declamate con un’enfasi a metà strada fra le massime proprie del Manuale delle Giovani Marmotte e i pensierini inseriti nell’involucro di un noto cioccolatino, tra retorica in offerta speciale e musica, al solito, invasiva nel suo inserimento non sempre funzionale. Il film fatica quindi a trovare un suo equilibrio, in particolare man mano che scopriamo il personaggio di Bea (una Weiss non del tutto convincente), il suo dolore interiore, l’affidarsi a Dio, il confronto con Leo, la presa di coscienza da parte di quest’ultimo dell’incombenza della morte in ogni momento dell’esistenza umana, non importa quanto possa essere spensierato o triste, con conseguente assunzione di responsabilità, passando dall’egoistica consapevolezza di sé alla coscienza del prossimo come propria proiezione (il simbolismo offerto dalla donazione del midollo).Flavio Insinna e Ceciia Dazzi
Come scritto, Campiotti pone tutto ad altezza d’adolescente, ma si adegua a tale visione senza colpo ferire o mediazione alcuna, anche se gli va riconosciuto il tentativo di unire melodramma e commedia ponendosi ad una certa distanza dalla melassa propria di realizzazioni similari (finale a parte), realizzando un lavoro gradevole per il pubblico cui si rivolge, ma forse più adatto per il piccolo schermo, essendo presente, almeno a mio parere, l’intuizione ma non la concretezza cinematografica di apportare qualcosa di veramente nuovo ad un genere che meriterebbe una connotazione del mondo giovanile maggiormente incisiva e reale, in chiave di confronto più che di condivisione.