C'era una volta Biancaneve, quella della fiaba. Che poi è diventata, in compagnia dei sette nani, quella di Walt Disney. Che poi divenne la Biancaneve di un sacco di registi (si contano più d'una versione pornografica e persino un titolo con la pittoresca cantante punk Nina Hagen, guardatela in foto e indovinate nella parte di chi).
La cantante Nina Hagen in 7 Zwerge
Al circolo di più o meno illustri nomi, si è aggiunto ora il giovane Rupert Sanders, fino a ieri sconosciuto autore di spot e videoclip. Su di lui ha deciso di puntare il produttore Joe Roth, dopo la trasformazione poco riuscita dell'Alice carrolliana in impavida guerriera al seguito di Tim Burton, per una rivisitazione in chiave ugualmente cavalleresca della fanciulla dei Grimm, che il bisturi del cinema trasfigura in rediviva Giovanna d'Arco, con tanto di epica battaglia finale per liberare il regno dal giogo della malvagia strega usurpatrice. Meglio mettere in chiaro da subito il giudizio di chi scrive: Biancaneve e il cacciatore non è un capolavoro, come le cifre del box office farebbero supporre, e non è un'opera brillante. Ma nemmeno una boiata pazzesca. É sicuramente un buon prodotto commerciale, sufficientemente istruito sui gusti e le mode che sommergono oggi il grande pubblico, e attrezzato quanto basta per cavalcarli. A discapito di un esito godibile ma non esaltante, il film offre la sponda ideale per riflettere su alcune tendenze del cinema contemporaneo, in particolare se americano e mainstream. Anzitutto, certe accortezze dello script, che a grandi linee rispetta il canovaccio originale (specchio celo, mela celo, nani celo, ma mancano casetta nel bosco e picconi da minatori, bacio celo ma scoccato dalle labbra di un non-principe che di azzurro ha giusto gli occhi), riattualizzano felicemente la trama, all'insegna di un "lifting" contenutistico che non ha nulla da invidiare ai brutali stratagemmi messi in atto dall'agghiacciante Ravenna (così è stata battezzata la strega) per preservarsi dalle rughe. L'episodio, assente nel modello letterario, in cui Biancaneve approda in una comunità di donne che, per sottrarsi alle brame vampiresche della sovrana, si sono sfigurate il volto, dimostra fino a che punto il conflitto tra apparente bellezza esteriore e purezza interiore sia al centro della pellicola. Un cuore tematico che pompa sullo schermo tutte le inquietudini, in particolare femminili, dell'Occidente odierno, in cui l'ossessione per l'eterna giovinezza, che inaridisce gli animi non meno di quanto la cupa Ravenna imputridisce ogni forma di vita, conduce ad un appagamento effimero, senza esorcizzare davvero il demone della morte. E sono due donne, due opposte concezioni di beltà, ad incarnare il contrasto. Kristen Stewart, nonostante la straordinaria piattezza espressiva, è abbastanza adatta come protagonista, almeno dal punto di vista fisiognomico: oltre che essere bruna e diafana (un filo di rossetto sulla bocca e voilàeccola trasformata nell'eroina targata Grimm, con "la pelle bianca come la neve, i capelli scuri come l'ebano e le labbra rosse come il sangue"), la Bella e ancor giovanissima attrice sprigiona la giusta dose di fragilità e purezza. Non potrebbe poi risultare più azzeccata la scelta della Theron, qui alla sua interpretazione migliore dai tempi di Monster, che nel 2004 le valse l'Oscar nei panni della laida serial killer Aileen Wuornos. L'attrice e modella, infatti, quando si parla di potere della bellezza, sa sicuramente il fatto suo. Lei che, poco più che adolescente, ha fatto leva sul proprio aspetto per sfondare la porta della notorietà e solo una volta divenuta celebre, complice quel gonnellino smagliato dello spot Martini che ne mostrava generosamente il "lato b" consacrandola icona mediatica, si è rimboccata le maniche per distruggere il clichédi attraente ma stupida che le avevano (s)cucito addosso. E chissà che per la preparazione della tormentata e rancorosa Ravenna, Charlize non abbia attinto emotivamente dal ricordo personale della tragedia che la colpì appena quindicenne, quando assistette all'uccisione del padre per mano della madre, che per legittima difesa aveva messo fine ai maltrattamenti di un uomo violento. Certo la prova dell'interprete sudafricana è il solo elemento del film a convincere al 100%. Villain di levatura faustiana, Ravenna è una moderna psicotica che, al pari di Cleopatra, suole immergersi dalla testa ai piedi in una vasca ricolma di latte, come la matrigna di Rapunzel ha bisogno di rubare la giovinezza di innocenti ragazze per perpetrare il suo inganno ai danni del tempo, e con la conturbante Monica Bellucci, diventata fattucchiera per Terry Gilliam ne I fratelli Grimm e l'incantevole strega, condivide una patologica fobia dell'invecchiamento. Per lei, ma anche per il cacciatore e in parte per gli 8(!) nani, Sanders ha previsto un approfondimento psicologico che mal si concilia con la tradizionale vaghezza con cui la scrittura fiabesca tratteggia personaggi, ridotti a pure funzioni narrative, e luoghi. A tal proposito, già l'antenato degli strizzacervelli Freud aveva evidenziato le triangolazioni edipiche sottese in Biancaneve al rapporto figlia-padre-matrigna. Nonostante all'epoca i suoi compari avessero liquidato l'intuizione come un'ennesima stramberia del buon vecchio Sigmund (“eddai su, non pensarci, facciamoci un goccetto”), pare che il sentiero dell'analisi psicanalitica abbia allettato più d'un viandante, fino a risucchiare oggi l'imprudente Sanders, che nel suo lungometraggio si diverte a moltiplicare le occasioni di arrovellamento simbolico, e sessuale, della trama. Per esempio, la terribile Ravenna pugnala il sovrano, suo fresco sposo, in pieno amplesso, durante la prima notte di nozze. Intanto, la Stewart perde i canini ma non il vizio e, come già in Twilight, allora contesa da un vampiro e un licantropo, qui si trova alle prese con un triangolo che no, né i fratelli Grimm e né tanto meno un puritano come Disney avevano considerato: ai vertici, l'avvenente ma scialbo principe azzurro e il cacciatore del titolo, un buzzurro dal cuore d'oro che, a differenza del suo originale letterario, nel formato in celluloide acquista uno spessore inedito e piuttosto gradevole, grazie anche alla presenza attoriale di Chris Helmsworth, le cui doti da Mister Muscolo sono già emerse a suon di martellate in The Avengers.Un citazionismo onnivoro e bulimico pervade l'intero film: i richiami spaziano dal Signore degli anelli a La Storia infinita(l'annegamento del cavallo), al Robin Hood di Scott (la cavalcata sulla spiaggia in assetto da battaglia), a Harry Potter (l'espediente del prescelto e l'eco visiva dei dissennatori), a Guerre stellari e Le cronache di Narnia. Trova un posticino la Genesi, con l'inevitabile sottotesto biblico che il semplice morso di una mela può portare a galla. Brevissimo cameo persino per un grosso troll, forse sfuggito al calderone tolkieniano che un decennio fa il signor Peter Jackson scoperchiò portando in sala la trilogia fantasy più celebre di sempre. La saga del regista neozelandese, che presto assesterà il suo ultimo colpo di coda con il prequel Lo Hobbit, rivoluzionò un genere cinematografico, quello fantastico, che a partire da quel momento non disdegnerà i toni dell'epica e stringerà un proficuo sodalizio con certe ambientazioni pseudo-medievali che, in fondo, non fanno che resuscitare il mondo delle antiche fiabe tradizionali, dove stregoneria, principesse imprigionate nella torre più alta, baci in grado di risvegliare i morti e, appunto, giganteschi troll, erano moneta corrente. Qui, la comparsa del peloso colosso è fulminea e assolutamente accessoria ai fini della storia: si presenta a muso duro sbraitando contro il visino della Stewart. Poi, senza che la nostra eroina faccia alcunché di eroico, piglia e se ne va. Geniale, no? A parte qualche trovata visiva che, nell'euforico abuso della CGI, rischia talvolta di arenarsi in bizzarrie kitch (elette solo pochi mesi fa a cifra stilistica del bollywoodiano Biancaneve di Tarsem Singh), all'esordiente e talentuoso film-maker si rimproverano una serie di insulsi inserti diegetici, in primo luogo l'introduzione nella storia del fratello di Ravenna, il personaggio più inutile del reame.
Chris Helsworth
Tornando alla questione citazionista, che subito spalanca le porte del postmodernismo, il cinema oggi sembra vivere soprattutto di minestre riscaldate: sequel, reboot, prequel, spin off. Si saccheggia senza pietà da letteratura, fumetto, televisione, videogiochi. Verrebbe da domandarsi in quale segreta del castello la perfida strega abbia rinchiuso i poveri sceneggiatori e quale oscuro incantesimo ne abbia prosciugato la vena creativa. Due opinionisti d'eccezione hanno offerto punti di vista interessanti sull'argomento. Il primo è Umberto Eco. Secondo lo scrittore, le avanguardie di inizio '900, con la loro carica eversiva scagliata contro le correnti artistiche precedenti, hanno sospinto il rifiuto delle forme estetiche del passato fino ad un nichilismo estremo, difficilmente superabile dalle generazioni future (le pagine bianche in letteratura, il silenzio in musica, le cornici vuote in pittura). In pratica, l'unico modo oggi per procedere è tornare indietro. Il "riciclo" come unica forma d'arte possibile. Una regola rimasta valida dagli anni '60 fino ai giorni nostri. Sul citazionismo, cito poi il grande Quentin Tarantino, che cita il grande Igor Stravinsky che, forse citando se stesso, disse: “i grandi artisti non copiano, rubano”. E se, nei tempi bui in cui i Giovanni Senzaterra spremono fino all'ultima goccia di creatività legioni di registi e sceneggiatori, affinché all'immenso carrozzone hollywoodiano non manchi mai il carburante per la folle corsa al botteghino, lo spregiudicato pastiche intertestuale di Sanders diventasse l'opera pia di un Robin Hood che ruba agli altri (registi) per dare ai molti (spettatori) che di blockbuster non sono mai sazi? Con grande probabilità, le fiabe attireranno sempre la settima arte, perché si basano, come ben rilevato a suo tempo da Propp e Campbell, su schemi narrativi altamente simbolici e codificati, di immediata fruibilità e sicura presa drammaturgica. Qual è dunque il confine tra citazione, omaggio e plagio? Rivolgendo nuovamente il pensiero ad un regista come Tarantino, alfiere di un postmodernismo ultracinefilo che eleva intervisualità e intermedialità a fondamento stesso della propria estetica, forse la risposta è più semplice di quanto non sembri. Laddove c'è talento, plagio ed originalità fanno, entrambi, rima con qualità.