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“Bianco” di Roberto Di Vito: viaggio al centro della mente

Creato il 13 marzo 2014 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

bianco

Un uomo bendato, imbavagliato e legato ad una brandina. Una stanza isolata alla periferia di una città. Un rapimento sbagliato che dà la possibilità al rapito di scavare in se stesso, di parlare con sé.

Esordio al lungometraggio di Roberto Di Vito, cineasta sin dall’adolescenza e collaboratore, tra i tanti, di Nanni Moretti e Dario Argento, Bianco, rielaborazione di un omonimo cortometraggio del 2001, è un thriller sui generis, allo stesso tempo mentale e intimista. Autoprodotto con soli 10 mila euro, un esperimento più unico che raro nel panorama del cinema italiano che raramente si stacca dal vincolo di cinema narrativo. L’opera di Di Vito è infatti un accecante e torbido viaggio al centro della mente, nell’io del protagonista Luigi come di ognuno di noi, una sorta di (non)romanzo di formazione interiore. In una prigionia che pare senza vie d’uscita, Luigi (Igor Mattei) scopre che la sua vera cella è stata una vita mai vissuta a pieno, dominata da continue paure che ora generano e lasciano solo il lungo strascico di nostalgie d’amore e d’affetto, in un limbo di solitudine e diversità. Riflessioni bendate di un uomo che ha toccato il fondo e che solo grazie ad una situazione assurda ha modo di mettere a fuoco il suo passato, con la speranza di vedere un barlume di luce in fondo al tunnel.

Pur con evidenti limiti e imperfezioni da cinema amatoriale nelle parti di dialogo e nelle prove attoriali di quasi l’intero cast, Bianco funziona nei monologhi a voce over, sospesi tra il verbo e il pensiero, dove la realtà accaduta si mischia e confonde con quella immaginata. E’ chiaro come a Di Vito, più che la storia e la sua resa, interessino gli spazi, i luoghi, i corpi, siano essi fisici o della psiche. Un excursus tra sogni e ricordi su una brandina/letto di contenzione che si trasforma ben presto in un lettino da psicologo senza psicologo, dove i conti si fanno con se stessi senza l’aiuto di laureati imbonitori. Un approccio liberamente psicanalitico scandito e guidato da una componente sonora e musicale elettronica, fluida, subacquea, graffiante, dal diffuso sapore new age. Una traccia audio che, sovraesposta a quella video, suscita e marca nello spettatore una certa sensazione di straniamento, spingendoci al centro di un inestricabile trip mentale.


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