Magazine Cinema
L’apertura di Bibliothèque Pascal (2010, presentato al 28° Torino Film Festival) si connota immediatamente come un percorso a ritroso dotato di slancio mnemonico e/o fantastico in cui si delinea il personaggio-Mona, ipocentro narrativo (e narrante) la cui vita sembra segnata da echi medemiani per il trasporto favolistico con cui ci viene mostrata. In realtà la prima ora di girato sa essere una moneta dalla doppia faccia che fonde crude argomentazioni (il bandito che ha picchiato un gay solo per il suo orientamento sessuale, un padre che vende la propria figlia per venire poi a sua volta ucciso) con pennellate surreali quasi di routine in una certa frangia del cinema magiaro contemporaneo (Pálfi), ne è prova la sequenza del sogno che mette in scena à la Švankmajer un confronto fra i due attori intorno ad un tavolo imbandito, qui il cinema letteralmente esplode e sprigiona creatività incommensurabile.
La struttura della prima parte potrebbe far pensare a una certa deriva aneddotica caratterizzata da frammenti episodici a se stanti. Errore, poiché i tasselli trovano corporeità nella seconda parte.
E la seconda parte del film è un capolavoro. Abbandonati gli incantevoli e variopinti affreschi zigani, la vicenda imbrunisce grevemente spostandosi nel bordello di Londra. L’arte, in questo caso la letteratura, ma indirettamente anche il cinema, si piega al vile denaro e al potere indegno. Gli ambienti fittizi che ricreano situazioni ricercate (Giovanna d’Arco, Pinocchio, Otello) non solo sviliscono le condizioni umane delle vittime, in fondo, checché ne dica l’estroso Pascal sempre di prostituzione coatta si tratta, ma sgretola (la ripetizione indotta dei versi), polverizza (la memorizzazione davanti all’interiorizzazione) e annienta nient’altro che la Cultura – si tratta di una biblioteca, ricordiamolo –, spettro nelle mani luride di un ristretto sottogruppo di persone ricche. Ma il regista ungherese Szabolcs Hajdu lascia uno spiraglio di luce, e tramite il mezzo onirico (il sogno di una bimba, cosa c’è di più puro?) rinvigorisce quel gigante messo all’angolo, e l’Arte con un guizzo di orgoglio si va a riprendere Mona (un angelo venuto dal cielo, così dice Pascal) a ritmo di fanfara, squadernando la sua essenza in un montaggio alternato che sigla alla resa dei conti un contatto - cinema & realtà - destinato a rimanere impresso per molto, moltissimo tempo, nella nostra memoria cinefila.
Tuttavia l’epilogo che si riconcentra nuovamente nello stanzino dei servizi sociali evidenzia l’impraticabilità immaginifica del cinema, difatti Mona è costretta a ritrattare le sue parole in favore di una versione più grigia e consueta, come se ciò a cui abbiamo assistito non avesse senso perché incomprensibile da una realtà abituata ormai a comprare tutto e disabituata alla forza mentale per eccellenza, quella di sognare [1].
Anche perché il quadretto idilliaco conclusivo mette i brividi: la felicità si estranea, diventa un soprammobile di plastica, con buona pace delle ultime due idealiste di questo mondo.
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[1] Si noti che la gente del villaggio paga per vedere la figlia che dorme, la quale proiettando i suoi sogni all’esterno si trasforma in un cinematografo di salvifica portata.
Il cinema è (un) sogno?
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