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Biennale di Venezia 2013

Da Narcyso

BIENNALE DI VENEZIA 2013

IL PALAZZO ENCICLOPEDICO

visita ai Padiglioni

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Vedere la biennale di Venezia è sempre un’esperienza che produce sentimenti e pensieri contrastanti. Provo a elencarli con parole informali.

Innanzitutto alcune tipiche frasi snob registrate qua e là, finte profonde, fintamente interessate per non fare brutta figura con qualche amico a fianco più sgamato che ci accompagna. O meglio, che accompagniamo.   Quest’anno me ne sono annotata qualcuna di queste frasi:

- Almeno questo padiglione era divertente!

- Si, divertente da morire! (signora con abitino verde e un cappellino azzurro. Mi è venuto in mente un film di Totò…)

- Ma qua c’è un buco! (La signora, un po’ fuori,  si riferisce a una statua in legno)

- Ma scema è il dolore! Guarda come è piegato dal dolore, i conflitti, le …guerre. Lo vedi adesso il dolore? (un Lui  paterno e autoritario)

- Ah sì, sì, adesso lo vedo, hai ragione!

- Guarda, mi ci sono perso lì dentro, come un pazzo! (Ragazzone quarantenne  con la r moscia, abbastanza rotondo con capigliatura a pon pon multicolori, tipo coperta di ciniglia anni ’70)

La biennale è un grande baraccone sensoriale e sinestetico -  quando non risulta noioso -  quindi in genere i bambini si divertono un casino. Ma si stancano subito, data la vastità degli spazi.

Mi sorge il dubbio che la gente ci venga più che altro per godersi Venezia…

Il rapporto tra pensiero ed espressione è quasi sempre sbilanciato a favore del primo. La bellezza è da tempo una musa stracciona.

In Biennale, ormai da anni, si vedono quasi del tutto solo video. Sembra che il lavoro faticoso delle mani sia stato demandato alla tecnologia: industria manifatturiera – spesso gli oggetti sono costruiti da altri – e informatica – i video hanno la regia degli “artisti”, ma per il resto ci sono le maestranze -.

Si salva il padiglione egiziano, sempre bellissimo, perché capace di mantenere un rapporto concretissimo e fecondo con la storia, l’arte, la cultura. Ancora adesso ricordo un lavoro di  qualche anno fa: carta sfilacciata, pietre  e vetri colorati incastonati nella struttura filamentosa di grandi pannelli che emergevano dal buio. Quest’anno il rapporto è con due importanti forme culturali di quel paese: il derviscio danzante e il sarcofago. Solo tre opere ma di grande bellezza.

Bellissimo è anche il grande albero abbattutto posto al centro di una stanza nera con il tetto dai riflessi dorati. Comunica qualcosa di profondamente umano; una perdita immane. (Belgio)

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La riflessione sul sociale è urtante perché in genere si avverte un pretesto di moda per dimostrare il proprio impegno -  ma io penso sia meglio impegnarsi nella vita piuttosto che fingere di essere impegnati nell’arte – Se impegno si vuol fare, deve essere espresso davvero attraverso un grande spessore formale.

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Il rapporto tra fare (le mani) e il pensare, è sempre complesso e ambiguo. Spesso si ha l’impressione che l’arte voglia sbandierare una concretezza, un non pensiero -  si vedano gli accumuli/istallazioni ( il più vistoso sono i mucchi di macerie del padiglione francese, il più poetico le delicate e ossessive costruzioni minimaliste e bulimiche di non mi ricordo più quale padiglione. Difficilmente la forma riesce ad esprimere un equilibrio tra queste due istanze fondamentali del pensiero creativo.

La forma sembra essere diventata contenitore di un pensiero errante, girovago, quest’anno, indicativamente, riassuntivo, enciclopedico, quindi non costruttivo ma conservativo.

A volte, invece, la forma, sembra volersi immergere in un fare manesco, non basato sulla poetica di una presa fine, da indice opponibile, ma del gesto dell’amigdala, della potenza di un espressionismo forzato, che vuole negare la Storia, per resistenza politica. Un pensiero, insomma, che si fa portare dal concreto, dal fare e che poi genera forma, ma non più mediata dalla Bellezza e abbandonata alla solitudine della sua incompiutezza: (una venere con una piaga all’ano, siamo sempre lì).

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Arte concettuale che non si può più chiamare tale, s’intende, perché passata di moda; arte concreta che, nella sua totale concretezza rinuncia a un artigianato sociale – interessante notare come nei musei, l’artigianato utilitaristico, a basso costo, per la massa, insomma, si esprima nelle copie delle boutiques -

Due cose fondamentali da vedere – guarda caso “oggetti” che non esprimono la contemporaneità, ma che, indirettamente ne mostrano la debolezza significativa, i suoi dubbi non creativi: il grande libro rosso di Jung esposto dentro una bacheca blindatissima, e un video commovente sul concerto per mano sinistra di Ravel, su cui mi vorrei soffermare:

Due video, uno sopra l’altro, esposti in una gigantesca sala insonorizzata (quanto sarà costata?). Le mani del pianista in primo piano e la tastiera. La mano che, quando non suona, si appoggia sull’altra che non si muove. La potenza della musica, in un momento della storia del novecento in cui l’arte non pensa a tentennare, a dubitare, ma a creare forma, messaggio sonoro ancora apprezzabile socialmente perché concepito dentro le maglie di un sistema tonale rassicurante.

La riflessione giunge dal movimento della mano sulla tastiera: immenso fare, fatica, virtuosismo, carne e ossa, ferite, scontro con i tasti bianchi, scalfittura come lo scalpello contro il marmo, dolore e ferita da cui si dipartono fili di suono, blocchi, astronavi blindatissime alla conquista del cielo. Equilibrio purissimo – ma qui, solo qui -  tra fare e pensare, Bellezza che scocca la sua freccia verso il cuore e la testa di chi ascolta.

Plauso all’artista regista, certo, che tuttavia, ancora una volta, pensa troppo – il suo gesto si vede  nei due  piccoli video che seguono e procedono il grande video, in cui una pianista cerca di ricavare suoni inconcludenti da un pianoforte: la modernità; l’afasia spocchiosa a cui siamo giunti -

Ora: se si pensa che il concerto per mano sinistra è stato scritto per un disabile, se si pensa alla fine di Ravel che dopo un incidente stradale non può scrivere più musica, se si pensa che,  mentre, in genere, la mano sinistra esegue l’accompagnamento e la destra la melodia, ma qui sembra che la stessa mano suoni armonia e melodia,  la metafora è grandiosa e riscatta i 25 euro del biglietto d’ingresso alla mostra.

Ultima riflessione, tornando al libro rosso di Jung: grande formato, disegni meravigliosi, opera inconclusa di tutta  una vita sui simboli, sull’animo umano. Esprime appieno il tema di questa esposizione e forse lo declina nei termini di un tentativo di svelamento dell’accumulo enciclopedico attraverso non la catalogazione ma l’elencazione analogica. Come dire che i processi di creazione abitano una zona della mente costruita da fantasmi a cui l’artista, ma anche il sedicente artista, tentano di dare forma visiva.

Non è un caso che un mio amico mi faccia osservare, girando tra le sale: non c’è niente da fare, la gente guarda di più le cose in cui riconosce una forma a sé familiare.

Questa familiarità è forse la chiave, ancora oggi, per costruire oggetti artistici capaci di spalancare le porte della solitudine delle forme naturali, delle texture naturali ingrandite a cui la modernità ha riconosciuto, con fin troppa leggerezza, dignità artistica esclusiva.

Sebastiano Aglieco


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