Big Bad Wolves, secondo lungometraggio del duo Aharon Keshales/Navot Papushado, è uno di quei film che guarderei almeno una volta all’anno. Dopo la prima visione (in originale), avvenuta lo scorso week end, l’ho riguardato una seconda volta (in italiano[1]). E come ho detto a Lucia, che lo recensì tempo fa QUI, è uno di quei film che vorrei aver diretto io, è una di quelle storie che mi piace scrivere.
E basta la scena d’apertura per innamorarsene.
Locandina USA
Trama
Stato d’Israele. La figlia di un ex militare viene rapita. Si teme possa essere la prossima vittima di un serial killer pedofilo che sta colpendo da un po’ di tempo. Una testimone indica come probabile rapitore un professore di teologia, visto sulla scena del rapimento.
Il tempo stringe, e il detective Micki accelera le indagini sequestrando il professore e interrogandolo con metodi poco ortodossi. A causa di un video girato di nascosto da un ragazzino, e che finisce su Youtube, il professore viene rilasciato e Micki sospeso dal servizio.
Deciso a dimostrare di essere nel giusto, Micki porta nel bosco il professore. Ma sulla scena arriva il padre della bambina scomparsa, che ha piani diversi…
Micki
Considerazioni
Da dove partire? Difficile. Vi chiedo solo se amate questi punti:
- Umorismo nero
- Regia dinamica da lasciare a bocca aperta
- Nessun momento morto
- Colpi di scena veri
Se amate questi punti, è il film che fa per voi, sennò lasciate stare, perché sono i punti di forza della pellicola.
Big Bad Wolves (il cui titolo originale verrebbe tradotto in Chi ha paura del lupo cattivo) ha davvero tanti pregi, ed è il tipo di film che amo davvero.
L’ironia, l’umorismo nero, di cui è intrisa la pellicola, sono per me il punto cardine che distingue l’opera di Keshales e Papushado da un qualsiasi vengeance movie, o un altro film di killer pedofili e padri incazzati. Quello che ci suggerisce è che provare a essere sprezzanti, sfacciati e prendere per il culo la sorte avversa può essere un’arma, un’arma che dà forza per portare avanti i compiti più difficili. In questo caso, per esempio, si tratta di estorcere da un probabile indiziato la verità, ma soprattutto il luogo in cui potrebbe (il condizionale è obbligatorio, fidatevi) aver sotterrato la testa della bambina.
Il padre vuole seppellire la figlia integra, il poliziotto vuole fermare un lupo che potrebbe un giorno arrivare anche a sua figlia, ma avere anche indietro il suo posto.
E in mezzo a questi due protagonisti c’è il professore, padre a sua volta, che si trova legato, torturato, vessato, e ovviamente cosciente che là fuori potrebbe andargli pure peggio, se non venisse scagionato.
Keshales e Papushado scrivono la sceneggiatura e la dirigono, dosando bene tutti gli ingredienti che hanno per le mani, senza esagerate con le battute, senza esagerare con la violenza, ma bilanciando il tutto. Trovano persino lo spazio e il tempo per ricordarci il conflitto delle loro zone.
Carnefice, vittima, carnefice, vittima… ?
Sono convinto che in mano ad altri, sarebbe uscito il solito film concentrato sul mostrarci visivamente la tortura, protratta da protagonisti incazzati neri, senza un minimo tentativo di smorzamento della tensione, tensione che sarebbe morta da sola dopo mezz’ora.
Invece, qui si rimane incollati allo schermo, sorridendo (okay, qualche volta ho proprio riso), stringendo in denti, facendo congetture, tifano ora per l’uno e poi per l’altro, fino all’amara verità.
E alla fine, non ci rimane che applaudire la coppia di registi/scrittori, sperando che producano altro e rimangano su questo livello.
P.S. nota di merito anche per la colonna sonora originale composta da Haim Frank Illfman, che è un tocco di classe nello scandire perfettamente i ritmi del film.
[1] Incredibile! Il doppiaggio non è affatto male.