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Quella che all'apparenza poteva sembrare una commedia da vedere in famiglia con i bambini, si rivela invece essere un film dalla morale poco consolante e forse, nonostante i protagonisti siano tutti (o quasi) bambini sotto i quattordici anni, non proprio adatto a un pubblico molto giovane. Nonostante l'intera storia narrata da Bensalah sia interpretata da giovanissimi, assoluti protagonisti di Big City, il regista non ci risparmia colpi bassi e questioni spinose sulle quali riflettere. Tutto sembra iniziare come un racconto di fantasia narrato da un nonno alla sua nipotina, una storia scritta da lui stesso, la storia della cittadina di Big City sita nel Far West americano del 1889.
In quell'epoca, in seguito a un attacco indiano ai danni di una carovana di coloni, l'intera popolazione adulta di Big City si assenta per correre in aiuto dei coloni. Quella che doveva essere un'assenza temporanea si protrae nel tempo fino a diventare permanente, a Big City rimangono solo i bambini, lo scemo del villaggio di nome Banjo (Atmen Kelif) e il vecchio ubriacone Tyler (Eddy Mitchell). I primi giorni sono un fiorire di azioni anarchiche in perfetto stile fanciullesco: negozi di caramelle depredati, animali dipinti coi colori dell'arcobaleno, strade invase da schiuma e bolle di sapone, schiamazzi, giochi e bimbi ubriachi. Poi i più saggi (?) tra i bambini si rendono conto che così non può andare avanti a lungo. E' nel momento in cui i bambini decidono di seguire ognuno le orme dei propri genitori che iniziano i guai, perché la mela non cade mai troppo lontana dall'albero. Se non mancano i bambini dal cuore puro e ingenuo come il pistolero James Wayne (Vincent Valladon) o il barman del saloon Luigi (Théo Sentis), sono i cattivi in erba come il ricco proprietario terriero e sindaco William White (Jeremy Denisty) il vero motore della vicenda. Curiose le parti assegnate a Nicole (Charlie Quatrefages), figlia di una prostituta che vende baci sulla guancia a 50 centesimi e sulle labbra a un dollaro (per 25 cents magari becchi un ceffone) o a Jefferson (Samen Télesphore Teunou), inserviente negro discriminato dagli altri bambini.
E' proprio con quest'ultimo aspetto che il regista francese affonda il colpo, la società costruita dai bambini eredita vizi e pregiudizi di quella degli adulti, il nero è discriminato e considerato un bambino di serie b, la crudeltà continua a far parte della vita quotidiana, anche istituzioni deprecabili come quelle del Ku Klux Klan (ovviamente molto edulcorate) sembrano essere destinate a esistere. Neanche il mestiere della prostituta scompare, quello che invece il regista ci porta a credere possa scomparire è la speranza, la speranza che almeno i nostri figli possano cambiare il mondo e il nostro modo di essere e sembra dirci: "attenti perché non è così, i nostri bambini guardano a noi e noi al 99% delle volte diamo loro l'esempio sbagliato".
Solo con un grande sforzo da parte di tutti le cose potranno cambiare. E' un film anomalo questo, un western francese recitato da piccoli grandi attori. Un cast fatto di spontaneità e sincerità, volti giovani davvero in gamba. Quello che appunto poteva essere una commedia divertente lascia invece un retrogusto parecchio amaro e ancora una volta ci mette di fronte in maniera evidente al fatto ineluttabile che siamo tutti sulla strada sbagliata.
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