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"Eyes are the windows to the soul"
Maestro supremo del gotico e visionario incantatore, padre e protettore di tutti i freaks e i diversi costretti a lottare strenuamente per guadagnarsi un posto in una società che nasconde i suoi veri mostri da spavento dietro smaglianti sorrisi e composte ipocrisie: se ci avessero chiesto qualche anno fa di descrivere Tim Burton in poche battute non avremmo avuto esitazione, ma la carrellata di risultati altalenanti che il regista di Burbank ha collezionato sin dai tempi del deludente Alice in Wonderland racconta ormai una storia diversa che con insistenza crescente sta lentamente divorando la leggenda di un autore straordinario.
Abbiamo perso per sempre il regista che con pochi colpi di forbice ci aveva fatti ballare fra i fiocchi di neve in Edward Scissorhands? Cosa ne è stato del ghigno irresistibile e dissacrante di BeetleJuice e Mars Attack? Il coraggioso e magistrale svelamento della poetica burtoniana operato in Big Fish era forse il canto del cigno definitivo? Ogni carriera è costellata di alti e bassi, ma la sgradevole sensazione è che dopo l'acclamata mostra al MOMA e un culto diffusosi fino a diventare mainstream il suo tocco inconfondibile sia precipitato nell'inconsistenza dello stereotipo, perdendo di vista un processo creativo che avrebbe innanzitutto dovuto vivere di personaggi umanissimi e non generare merchandising; la costante presenza di Johnny Depp e di Helena Bonham Carter, team di rodata collaborazione divenuto in fine cavallo azzoppato su lunga corsa, non ha fatto altro che peggiorare le cose maschera dopo maschera.
Per tentare di ritrovare la luce, l'unica soluzione auspicabile era ricominciare a dipingere da zero la propria tela, grazie ad un soggetto che non si prestasse facilmente all'esaltazione di quei canoni tanto tossicamente abusati: sembrava provvidenziale in tal senso la scelta di Big Eyes, il film dedicato all'artista dei grandi occhioni Margareth Keane e alla frode nella quale il marito Walter, in principio baldanzoso individuo dal fascino truffaldino e poi compagno dispotico e crudele, la trascinò senza apparente via d'uscita.
Credere che Big Eyes sia del tutto estraneo al percorso burtoniano sarebbe però un errore: abbastanza forte da mettersi in macchina con la figlia per fuggire da un primo matrimonio ma non altrettanto da resistere al giogo del suo asfissiante secondo partito, Margaret è una creatura insolita che nutre di timidezza e malinconia gli sguardi delle sue creazioni, prigioniera di quegli anni 50' e 60' che schieravano deliziosamente le loro villette colorate su adorabili vialetti tutti uguali, nella certezza di non valere abbastanza senza il supporto economico ed emotivo di una presenza maschile; grottesco e troppo sopra le righe persino per un corroborato interprete di Villain come Christoph Waltz (sarebbe ora che il nostro smettesse di accettare personaggi così macchiettistici per il bene della sua stessa carriera), Walter Keane si muove con agilità nella menzogna senza farsi mai prendere dal benché minimo scrupolo.
Messi da parte ceroni cadaverici e capigliature senza controllo, Burton sciacqua le tinte fosche del suo gotico passato coi colori pastello di un'America perbenista che ben si accorda alla colonna sonora in stile "Thomas Newman" dello storico collaboratore Danny Elfman, per mettere in scena la morte di un matrimonio e il dolore di un estro soffocato a tal punto da non avere nemmeno il lusso di prendere sulle proprie spalle il peso di una sonora stroncatura; peccato che nel processo di accurata ripulitura finiscano per essere lavate via anche anima e personalità lasciando solo le ombre appena abbozzate di due psicologie che avrebbero meritato maggiore incisività e spessore (non ci è dato sapere perchè Margaret trovi tanto conforto nella pittura né se dietro le smorfie e le moine cartoonesche di Walter si nasconda davvero un sincero disappunto per non poter essere altro che un abile venditore di idee altrui.), figurine di contorno asservite a pura decorazione(sprecate le apparizioni di Kristen Ritter, Jason Schwartzman e del grande Terence Stamp) e uno spunto interessante sulla mercificazione pop dell'arte, direttamente collegato alla rischiosa sovraesposizione dei Tratti Burtoniani, lasciato a mezz'aria in nome della progressione del racconto.
Si dice che gli occhi sono lo specchio dell'anima e guardare in quelli della dolce Amy Adams non è sufficiente per donare a Big Eyes il cuore che avrebbe meritato: dinanzi al tentativo del regista di ritrovarsi e dare un taglio al passato un applauso alle intenzioni è comunque dovuto, ma l'attesa perchè la voce del Tim Burton che credevamo di conoscere torni a farsi sentire vibrante e commossa nella sua produzione si sta facendo tanto, troppo lunga.
Note:
La canzone di Lana Del Rey è decisamente troppo bella per questo film.
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