Bill Mitchell all’Università Roma Tre: eurozona, dibattito su neoliberismo e piena occupazione

Creato il 13 dicembre 2014 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Il 24 novembre il dipartimento di economia dell’Università degli studi Roma Tre è stato il teatro di un incontro che ha avuto come protagonista l’economista australiano William Francis Mitchell. All’incontro, promosso dall’associazione Me-MMT Roma e Lazio, ha preso parte, in qualità di moderatrice, la professoressa Antonella Stirati, titolare della cattedra di Macroeconomia ed economia politica dell’ateneo romano. Professore di economia all’università di Newcastle, nel Nuovo Galles del Sud, Bill Mitchell presiede il Centre of Full Employment and Equity (CoFFEE), centro di ricerca presso l’università di Newcastle – con una sede europea nella città di Maastricht, in Olanda – che ha l’obiettivo di «promuovere la ricerca con lo scopo di ripristinare la piena occupazione e raggiungere un’economia che fornisca risultati equi per tutti». L’economista australiano è tra gli esponenti più in vista della Modern Monetary Theory (MMT), la scuola di pensiero economico che eredita una tradizione lunga più di un secolo. Da Friedrich Knapp, padre del cartalismo, a John Maynard Keynes, ideatore della funzione dello Stato per la piena occupazione, dalla finanza funzionale di Abba Lerner ai bilanci settoriali di Wynne Godley, da Hyman Minsky a Charles Goodhart della Banca d’Inghilterra e della London School of Economics. Oggi i suoi esponenti contemporanei sono, tra gli altri,  Warren Mosler, James K. Galbraight, Randall Wray, Stephanie Kelton, Mathew Forstater, Marshall Auerback, Alain Parguez, e, appunto, Bill Mitchell.

La MMT offre una descrizione delle modalità di spesa e del funzionamento di uno Stato che emette la propria moneta. «Sono fermamente contrario alla visione – esordisce l’economista – che considera l’economia alla stregua delle scienze naturali e dove chi non ce la fa, come i disoccupati, sono considerati disfunzionali. C’è una visione alternativa a quella propria del neoliberismo, oggi dominante. Noi abbiamo creato l’economia – prosegue Mitchell – non c’è nessun carattere naturale. Il governo è il nostro agente, non è un arbitro morale che punisce chi non si sacrifica». In virtù di tale visione, come descritto dalla functional finance (finanza funzionale) di Abba Lerner, l’idea centrale è che la politica fiscale del governo – la sua spesa, la tassazione, i prestiti, l’emissione di nuova moneta – deve essere posta in essere con l’esclusiva considerazione dei risultati che tali azioni hanno sull’economia. Il riferimento è ai i parametri di bilancio stabiliti dall’establishment europeo. “Capire il contesto in cui si analizza il deficit di bilancio è una questione centrale per una giusta valutazione della posizione fiscale di uno stato. Non si possono dividere i due piani. Non esiste un bilancio buono o cattivo di per sé, ma dipende da quali sono gli obiettivi. Il bilancio non è un obiettivo di per sé”.

Uno dei capisaldi della MMT, riprendendo la descrizione dei bilanci settoriali dell’economista inglese Wynne Godley, è che un bilancio in deficit da parte del governo fa aumentare la disponibilità di beni finanziari al netto per il settore non governativo (famiglie ed aziende), mentre un bilancio in surplus ha l’effetto opposto. Proprio su questo piano, buona parte dell’intervento dell’economista australiano si concentra sull’utilizzo del “vocabolario economico” e sulle possibilità di veicolare concetti diversi da quelli espressi dall’ortodossia neoliberista. «La dottrina neoliberista sta vincendo perché ha capito esattamente come funziona la mente umana. E’ un esercizio contro-intuitivo pensare alla parola “deficit” come qualcosa di positivo. Solitamente la associamo a qualcosa di negativo». Il linguaggio gioca dunque un ruolo di importanza capitale. Anche in ciò risiede il successo del neoliberismo: «Frasi come “deterioramento del bilancio pubblico”, “montagna di debiti”, oppure “il governo ha esaurito le risorse” “spesa pubblica eccessiva” dalla quale debbano necessariamente derivare dei “sacrifici”, sono espressioni che funzionano nella testa della gente. Ma esse – aggiunge Mitchell – si fondano su una base concettuale errata nella quale il soggetto statale e l’individuo vengono fatti coincidere. Da un punto di vista economico, la tautologia Stato-individuo è valida oggi solo se ci si riferisce all’eurozona. Non c’è tale coincidenza negli Stati dotati di sovranità monetaria». Mitchell si sofferma conseguentemente sulla necessità di «studiare un nuovo impianto metaforico, partendo dalla descrizione di ciò che vogliamo, dagli obiettivi di una certa politica. Avendo chiari gli obiettivi che ci prefiggiamo, sarà facile dedurre che c’è necessità di avere deficit più elevati». L’obiettivo numero uno, la priorità di una spesa a deficit da parte dello Stato, «che sarebbe meglio esprimere come politica di investimenti pubblici» per le ragioni di “vocabolario economico” sopra esposte, è la piena occupazione, come richiamato dalla denominazione stessa del centro di ricerca diretto da Mitchell. «Nel linguaggio dell’economia è necessario creare nuovi legami causa-effetto, dove quindi ciascun obiettivo deve essere seguito dall’adozione della politica appropriata. Se l’obiettivo è creare occupazione e raggiungere la piena occupazione, l’azione finalizzata al suo raggiungimento deve consistere necessariamente in un aumento della spesa pubblica».

Un’obiezione frequente che si fa dinanzi all’ipotesi di un’uscita dall’eurozona è quella della prospettiva di una massiccia fuga di capitali. Al riguardo, spiega Mitchell, «il caso dell’Argentina dei primi anni del duemila, in tal senso, fornisce un precedente importante. Dopo la decisione da parte del governo di abbandonare il legame del peso argentino con il dollaro americano, certificato dal currency board, già dopo sei mesi di applicazione di politiche a sostegno della domanda aggregata e di job guarantee, un ingente flusso di investimenti esteri si diresse verso l’economia argentina. Bisogna comprendere che i mercati finanziari non sono ideologici. La storia della fuga di capitali in caso di uscita dall’euro non ha nessun fondamento».


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