Via Scoop.it – Med News
- Il DNA è il mio, e miei sono i risultati – questo potrebbe essere il motto alla base della nuova politica del National Institutes of Health (NIH) negli Stati Uniti, in materia di gestione dei risultati scientifici. Da alcuni anni ormai, previo consenso da parte dei singoli soggetti, per ogni studio genetico i campioni di DNA sono raccolti e conservati in biobanche dedicate; in questo modo possono essere prodotti dei dati scientifici, in merito alla specifica ricerca per la quale sono stati raccolti i campioni. Tuttavia, con il progressivo aumento degli studi di genomica, può capitare che in anni successivi, attraverso studi indipendenti da quello originario, si possano scoprire nuove informazioni, “accessorie e/o fortuite” rispetto agli scopi del primo studio. Cosa è meglio fare in questi casi? Per esmpio, è opportuno comunicare , la presenza di un marcatore genetico che si può associare all’innalzamento del colesterolo, dopo che il DNA è stato raccolto anni prima per uno studio di tutt’altro genere?
Secondo una commissione, appositamente creata dall’NIH per discutere la materia, le biobanche e i ricercatori, di volta in volta coinvolti negli studi genetici, devono farsi carico di comunicare i nuovi risultati agli iniziali donatori del materiale biologico. “Se riteniamo che l’informazione possa avere delle importanti implicazioni cliniche per il soggetto, è giusto farlo presente”, è quanto sostiene Leslie Biesecker, ricercatrice al National Human Genome Research Institute di Bethesda. Certo è che nel passato gli studi di genetica su un numero elevato di campioni erano rari, mentre “oggi, con la tecnologia a disposizione per sequenziare il genoma, la mole di dati disponibile per ogni individuo cresce sempre di più”, ammonisce James Evans, editore della rivista scientifica Genetics in Medicine che ha dedicato un numero intero al dibattito sulla materia.
E proprio il fatto che l’acquisizione di dati genetici individuali è ormai la base routinaria di moltissimi studi, deve essere considerato in relazione agli sforzi, al tempo e al reale impatto sulla salute che sarebbe legato al contattare ogni persona, per comunicare un certo risultato genetico, non sempre di chiaro significato quando riferito al singolo individuo e non all’intera popolazione di studio. In questo senso, Ellen Wright Clayton, pediatra e avvocato al Center for Biomedical Ethics and Society della Vanderbilt University di Nashville, pensa che “sia stato un peccato che l’NIH non abbia anche considerato i costi di questa scelta; attualmente i soldi per la ricerca sono pochi e la decisione di contattare a tappeto ogni individuo che ha lasciato il proprio DNA per uno studio, potrebbe alla lunga andare a scapito delle stesse ricerche”.
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