Ho scritto questo pezzo nell'ottobre 2007. Esattamente un anno fa il popolo birmano subiva ingiustificate violenze e umiliazioni. Lo ripropongo. Per non dimenticare.
E' da più di un mese ormai che gli occhi del mondo sono puntati su ciò che accade in Birmania, protagonista indiscussa delle prime pagine di tutti i giornali, le cui atrocità delle immagini che arrivano continuamente nelle nostre case, non possono che lasciarci indignati e addolorati di fronte a tale incomprensibile e gratuita violenza.
La Birmania (dal 1989 diventata Myanmar) è una terra martoriata da decenni di feroce dittatura militare, repressa da un governo che violenta costantemente la dignità di un intero popolo, riducendone la libertà ai minimi termini. Basti pensare che le ultime elezioni, risalenti a 17 anni fa e vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, non sono mai state riconosciute dalla giunta militare. L'eroina dell'opposizione, premio Nobel per la pace nel 1991, è ancora oggi agli arresti domiciliari.
Ed ecco che ancora una volta, dopo la repressione del 1988, che si concluse in un bagno di sangue con la morte di circa 3 mila persone, i birmani scendono nelle strade a manifestare contro il governo dittatoriale, chiedendo democrazia e rispetto dei diritti umani.
Un fiume rosso di monaci dalle teste rasate e con indosso il sanghati (la veste tradizionale che contraddistingue i buddhisti birmani) scorre per le vie di Rangoon (oggi Yangoon, capitale sino al 2005) schierandosi dalla parte della popolazione da decenni soppressa dal regime, seguito dalle suore buddhiste con le tradizionali tonache rosa e da centinaia di migliaia di civili. Un corteo pacifico e silenzioso, le cui uniche armi sono la fede e il coraggio.
Le proteste sono continuate silenziose per giorni, sino agli attacchi violenti della giunta militare che non ha risparmiato gas lacrimogeni, manganelli e armi da fuoco per contrastarli, oltre a irruzioni nei monasteri, dove hanno picchiato e arresto numerosi monaci.
Il motivo scatenante di tale protesta, che ha visto il culmine nei giorni tra il 26 e il 27 settembre, è stato il rincaro dei costi della benzina e di alcuni generi di prima necessità, che in certi casi sono addirittura quadruplicati. Perciò, la situazione di povertà e di stenti in cui vive da anni la popolazione birmana e l'improvviso e inaspettato rialzo, hanno fatto sì che esplodesse la scintilla della rivolta.
La repressione violenta sui monaci si è abbattuta il nono giorno di manifestazione pacifica dei religiosi, che hanno sfilato nelle maggiori città birmane, sfidando i crudeli militari in tenuta antisommossa, in nome della libertà e della non-violenza, uno dei dogmi fondamentali della religione buddhista, in cui il 90% della popolazione crede fermamente.
Guardando le immagini in televisione o sui giornali, non si può non restare attoniti di fronte a una così incomprensibile e illogica violenza, tanto da pensare che il governo birmano non sia solo crudele e spietato, ma anche spinto ad agire in tale maniera da una subdola follia.
Il rosso acceso delle vesti dei bonzi è in netto contrasto con il grigiore della città, sbiadita forse dalle piogge torrenziali di questi giorni monsonici e dai volti inetti dei soldati, che, senza scrupoli e sentimenti, si rivoltano contro poveri monaci scalzi, i quali, a loro volta, rispondono solo pregando.
In questi giorni la giunta militare ha preso dei rigidi provvedimenti per smorzare la protesta, imponendo il coprifuoco dal tramonto all'alba in tutte le principali città come Rangoon, Mandalay, Sittwa. Inoltre, è stato vietato qualsiasi assembramento di più di cinque persone e il Paese è stato privato di connessione Internet, dichiarando falsamente che ciò è dovuto alla rottura di un cavo sottomarino. In realtà, il governo ha oscurato i collegamenti per impedire che le notizie sulla rivolta siano divulgate all'esterno, cacciando anche tutti i giornalisti stranieri e uccidendone due (un fotografo giapponese e un reporter tedesco), che si trovavano in mezzo ai manifestanti.
Nonostante tutte le misure di controllo, le notizie continuano a trapelare da fonti non ufficiali e, ora che la situazione pare essersi calmata, si stima che circa 6 mila siano stati arrestati, portati in campi di detenzione e costretti ai lavori forzati, 200 i morti (i cui corpi sono stati cremati per non lasciare nessuna traccia) e decine e decine i dispersi.
Dopo il tragico bilancio di vittime che ha fatto e continua a perpetrare il regime birmano, mi viene in mente un passaggio del libro "In Asia", di Tiziano Terzani, che riporto di seguito:
" Quando, 140 anni fa, il re Mindon decise di trasferire in questa città la capitale del Paese, per prima cosa fece seppellire vive nelle fondamenta della sua nuova reggia 52 persone. Dovevano servire da "spiriti protettori". Il suo successore, re Thibaw, temendo che qualcuno volesse usurpargli il trono, fece mettere in galera tutti i suoi parenti e diede ordine di ucciderne 80. [...] Quando le sorti del suo regno cominciarono a vacillare, pensò di rafforzare gli spiriti protettori con altri 600 uomini e donne da interrare vivi attorno al palazzo reale".
Ora in Birmania, quasi per uno scherzo del destino, la storia sembra ripetersi e le efferatezze del governo birmano trovano antecedenti nella spietatezza dei re del passato. Forse la pazzia omicida dei governatori è innata, fa parte di un retaggio storico-culturale difficile da cancellare.