Mio nonno che aveva molto viaggiato per “diporto” come si diceva un tempo, quando si fermò poi a Venezia allestendo un suo studio professionale su un tavolino del caffè DeVidi in campo San Stefano dove riceveva clienti e amici estate e inverno, preferibilmente in primavera, era solito dire: prima o poi tuti ga da pasar da qua”.
Era il suo modo un po’ sprezzante di dire che Venezia era ancora una potenza cosmopolita, senza i limiti della provincia. In realtà mi succede ancora a volte quando torno là che qualcuno mi apostrofi: beh che cosa se dise a Roma? Come se non fossimo inclusi per non dire reclusi nel villaggio globale e come se la contiguità con i palazzi rendesse più intelleggibile questa strana realtà.
Così so che se questo fine settimana vado a Venezia e mi siedo da Paolin ( il caffè De Vidi non c’è più, sostituto da un algido bar, e nemmeno il tavolino di mio nonno) ci sarà senz’altro qualcuno che mi interrogherà sottovoce: ma chi xe questo Bisignani?
Questa volta non avrebbe torto. Come ha detto giustamente qualche giorno fa il Simplicissimus abbiamo una stampa un po’ troppo embedded, per svelare davvero il retropalco cui in troppi hanno attinto informazioni, aiuti, raccomandazioni. E soprattutto piccoli servizi apparentemente leciti apparentemente leggeri e inoffensivi, i biglietti per la tribuna Vip, le salette dell’Alitalia supercalde d’inverno e freddissime d’estate, il passaggio di classe in un viaggio aereo, insomma quelle forme temperate di corruzione che, come tutte le scorciatoie amate da questo regime, solo apparentemente non segnano chi le compie e chi le accetta.
Viviamo tempi miserabili anche per quello che riguarda la cattiva politica. Non rimpiangeremo tempi più tragici: George Orwell scriveva (in Writers and Leviathan) nel 1948, «Questa è un’epoca politica. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare» come una narrazione terrificante, generata dalla potenza sopraffattrice – nelle relazioni tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi e all’interno dei popoli. E connotata dall’uso di categorie primordiali: amore e odio, amico e nemico pensate e impiegate, per dirla con Schmitt, per dividere il campo dell’agone politico, illuminato solo dal riflesso di una concezione delle relazioni basate sulla malevolenza tra gli esseri umani. Cui si contrappone la radiosa e altrettanto eroica convinzione di Aristotele per il quale il compito della la politica “pare essere soprattutto il creare amicizia” tra cittadini, cioè legame sociale (Etica Eudemia).
Chissà invece come, in questo mediocre e appiattita imitazione di un regime, è stata interpretata la virtù politica. Che a me piace pensare sia come l’ha descritta Arendt, quella di coloro che amano stare “con” le altre persone, non “sopra”, nemmeno “accanto” o, peggio, “altrove” rispetto agli altri. Quella di coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne comuni, stando dentro quel “ragionare insieme che fa di una semplice somma d’individui, una società e una comunità. Che vive e si alimenta di una circolazione di reciproca fiducia, quella che può esistere solo a condizione che i governanti non si costituiscano in classe separata, solo a condizione che i cittadini comuni non li vedano come cosa diversa da sé.
La P4 o 5 via via coi numeri interi, ha perpetuato e esaltato il modo di stare insieme dei clientes, dei tiranni con la plebaglia di postulanti: i più distanti dalla vita della gente comune, che disprezzano derubano perfino del futuro deridendola, la contagiano e corrompono con miserabili prebende, la tengono sotto minaccia con ricatti esercitati con goliardica lievità, la rendono complice spacciando l’ubbidienza per adesione a un circuito esclusivo e desiderabile.
Se una volta i ceti o le caste delle società premoderne erano stratificazioni sociali alle quali si apparteneva dalla nascita alla morte, oggi a questo ceto cialtrone non si appartiene per diritto di nascita, anche se non manca, anzi si moltiplicano i casi di nepotismo, di familismo e di trasmissione ereditaria delle cariche politiche. Ma “si entra”, proprio come in un giro malavitoso inclusivo e separato, basato sulla fidelizzazione commerciale, nei quali la leadership è esercitata da figure che si auto-investono di autorità in lobby più o meno segrete, gruppi d’interesse “interessati” solo ai propri affari, il più delle volte condotti illegalmente tramite corruzione o collusione.
Non so cosa risponderò alle domande del mio amico seduta da Paolin. Mi viene in mente l’incipit del pamphlet pre rivoluzionario dell’abate Siéyès citato tempo fa da Zagrebelsky: “Che cos’è la società civile? Molto. Che cosa è nell’ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi? Qualcosa”.