Si narra che il re di Francia Luigi XVI, alla caduta
della Bastiglia, domandò al duca di Liancourt: “C’est une révolte?”. Il duca gli
rispose: “No, Sire, c’est une révolution”. C’è una bella differenza fra le due
cose. Ed è chiaro che di fronte all’ennesimo, triste scandalo politico – l’ennesimo ma
non l’ultimo, perché l’elenco dei mascalzoni che hanno approfittato delle loro
cariche pubbliche per rubare e truffarci è destinato ad allungarsi
ulteriormente – viene voglia di ribellarsi, di scendere in piazza e dare vita a
una rivolta spazzatutto. In fondo, siamo o non siamo il paese di Masaniello e
Balilla? Non sarebbe così difficile assecondare qualche arruffapopolo e
seguirlo sul sentiero che conduce al ripulisti generale. Attenzione, però, bisogna distinguere fra rivolta e
rivoluzione. La prima non ci serve, della seconda abbiamo un bisogno immediato,
disperato. Le rivolte non mi piacciono perché scorre troppa adrenalina e ci
vanno di mezzo gli innocenti. Confesso che sono fra quelli che sognano di dare
l’assalto al Palazzo e bruciarlo fino alla fondamenta, prendere a calci negli
stinchi i politici e i cattivi amministratori pubblici, impalare (sì, come
faceva il conte Dracula) i ciccioni untuosi e i falsi galantuomini che ci
sfottono dopo averci derubati. Salvo poi pensare che la foga è cattiva
consigliera e piena di effetti collaterali. Non sono l’unico, tuttavia, ad
avvertire il prurito nelle mani. Gratta gratta, siamo tutti arrabbiati e dunque
aspiranti giacobini, giustizieri della notte in nuce, soprattutto se l’esasperazione diventa incontrollabile. Ma
è la strada giusta fare un quarantotto? Tiziano Terzani ha riconosciuto che “le
rivoluzioni costano carissime, richiedono immensi sacrifici e perlopiù
finiscono in spaventose delusioni”. Come dargli torto? Se consideriamo la
storia delle grandi rivoluzioni emerge una costante: sfuggono di mano e
conducono quasi sempre alla tirannia. La Rivoluzione francese produsse riforme
giuste ma anche il periodo del terrore e ancora oggi, a ben guardare, resta una
vergogna del genere umano. Della Rivoluzione russa è meglio tacere. Gli ideali
comunisti che ne informarono l’azione hanno fatto più vittime di tutti i
terremoti, alluvioni ed eruzioni vulcaniche mai registrati sul pianeta. Idem
per la Rivoluzione culturale cinese. Se poi prendiamo in considerazione le
grandi rivoluzioni religiose della storia, è lecito domandarsi se ne valeva la
pena. Quante morti hanno provocato le grandi riforme e le guerre di religione?
Nel suo trattato di Politica,
Aristotele riconosce che “gli inferiori si ribellano per poter essere uguali e
gli uguali per poter essere superiori. È questo lo stato d’animo da cui nascono
le rivoluzioni”. È vero o Aristotele si sbaglia? Quando parlo con la gente e ne
raccolgo le giuste lamentele perché la pressione fiscale è abnorme e i partiti
politici sono diventati accolite di masnadieri, individuo una sorta di intenzione inconfessata
dal retrogusto sgradevole. A volte mi chiedo: volete abbattere i ladri e i malvagi
perché è giusto farlo o volete ribellarvi al sistema perché non ne fate parte?
In sostanza, qual è la vera motivazione che ci spinge a caldeggiare la testa di
chi ci tiene per il coppino? Abbiamo solo sete di giustizia e benessere o
vogliamo soprattutto dare sfogo alla frustrazione e all’invidia? Se un attimo
prima di appiccare il fuoco ci offrissero una carica statale con uno stipendio
da nababbi, come reagiremmo? Siamo certi che rifiuteremmo sdegnati di salire
sul carrozzone dorato dei furbi, degli arroganti, degli approfittatori? La
verità è che ogni rivolta, ogni ribellione, persino ogni rivoluzione asseconda
il primo e inconfessato desiderio umano: essere potente. Ovvero, essere come
Dio. Non fu forse dettata dal subdolo invito di Satana – “Sarete come Dio se
coglierete questa mela” – la rivoluzione primigenia del genere umano? È la
formula segreta di ogni rivoluzione e come riconosceva Kafka, “ogni rivoluzione
evapora, lasciando dietro solo la melma di una nuova burocrazia”. È stato così
anche al tempo del Duce, che prometteva una grande rivoluzione sociale e un
posto al sole, per cui la maggioranza degli italiani confidò nel fascismo. Ed è
stato così quando Berlusconi scese nell’arena politica e promise agli italiani,
attoniti di fronte alla caduta della Prima Repubblica, una grande rivoluzione,
una sorta di rinascimento per tutti. Sappiamo com’è andata a finire. In realtà
non è ancora finita. Vorremmo che terminasse la cena delle beffe, lo spaccio
della bestia trionfante, l’oscena pantomima. Vorremmo che il sipario calasse su
tutti gli squallidi figuranti della commedia dell’arte messa in scena dalla
Seconda Repubblica. Vorremmo cambiare le cose e offrire il potere solo a chi lo
merita, a chi è onesto e capace, a chi ha dignità e coraggio. C’è un solo modo per
farlo e si chiama rivoluzione. Peccato che l’unica rivoluzione laica vincente che
mi venga in mente sia quella di Gandhi, che fece fuori l’impero britannico con
l’ahimsa, la non violenza. È
praticabile, oggi? Forse sì, ma ci vogliono gli uomini giusti, che non
abbiano
precedenti politici ma riconosciute virtù umane. Uomini meritevoli,
indipendenti,
disposti a servire la patria senza lauti stipendi, accontentandosi di un
minimo
sindacale più il rimborso spese. Perché la Politica non dev’essere un
pozzo a
cui attingere a pieni palmenti. Fosse ancora in vita, il grande Indro
Montanelli ribadirebbe che “le rivoluzioni vincono non in forza delle
loro idee
ma quando riescono a confezionare una classe dirigente migliore di
quella
precedente”. Ora, non dovrebbe essere difficile trovare gente migliore
di
quella che si è riempita le tasche mettendoci in mutande. La vera
difficoltà è convincere
i buoni e i giusti a entrare in politica, e a farlo con la mentalità che
ha
reso grande il volontariato in Italia. Vale a dire con un fine preciso:
donare
il meglio di se stessi per il bene comune, rinunciando a prebende e
privilegi.
La vera rivoluzione cui dovremmo dare corpo in questi tempi di sfacelo è
cambiare
radicalmente la politica (considerata un trampolino di lancio sociale e
una
scorciatoia verso la ricchezza) e le sue regole obsolete e inique.
Occorre
scendere in piazza, non per bruciare i cassonetti e dare l’assalto alle
camionette delle forze dell’ordine, ma per formare uno tsunami oceanico e
trasversale
che spazzi via il vecchio regime a colpi di protesta civile, referendum,
class
action, boati e fischi da assordare anche le stelle e non solo i
quaquaraqua
della politica italiana. Bisogna usare gli strumenti della democrazia,
su tutti
il voto. L’anno prossimo avremo la possibilità di esprimere le nostre
preferenze, di bocciare chi ha fallito, chi ha tradito, chi ha rubato.
Personalmente, sogno che nessuno degli uomini politici che oggi
pontificano in televisione
e sui giornali, si giustificano goffamente, si avvinghiano alle poltrone
come
l’edera sul muro, sia rieletto. Che vadano tutti in malora, da Fini a
Casini,
da Formigoni a D’Alema, dai coristi della Berlusconi’s band a Di Pietro,
da
Bersani a Bossi. Tutti, anche quelli che cercano di abbindolarci dicendo
“ma io
sono diverso, sono il nuovo” oppure “ma io non sapevo”. Sei diverso? Non
sapevi
che il gioco preferito dei partiti è rubamazzetto? Non hai visto né
sentito
mentre i predoni assalivano la carovana? La rivoluzione che dovremmo
avere il
coraggio di fare è impedire ai cialtroni con la tessera di riciclarsi,
alle
prostitute sculettanti di indossare il saio per fingersi monache, alle
volpi di
travestirsi da agnelli. La vera rivoluzione a cui vorrei partecipare
dovrebbe
unire tutti gli uomini e le donne di buona volontà nel cui cuore arde il
desiderio di cambiare veramente il nostro paese, di bonificare l’Italia,
derattizzarla, renderla vivida e vivibile com’era un tempo, prima che ci
dimenticassimo che la vera forza di coesione e propulsione di una
società
civile non è il potere o la ricchezza, ma l’amore. Quand’ero piccolo (mi
pare
fosse il 1967) Gianni Pettenati cantava: “Ci sarà la rivoluzione,
nemmeno un
cannone però suonerà. Ci sarà la rivoluzione e l’amore alla fine
trionferà”.
Non so se è la nostalgia di quegli anni a farmi sembrare belle queste
semplici parole
e la musica che le accompagnava, ma giuro che in questo momento vorrei
essere un adolescente per compierla quella rivoluzione che è rimasta
incompiuta e di cui oggi
abbiamo un bisogno immediato. Ci vorrebbe… Un mio conoscente continua a
ripetere che ci vorrebbe un uomo forte. Non credo, gli uomini della
provvidenza
mettono a dimora il seme della dittatura. Ci vorrebbe piuttosto un uomo
onesto
e carismatico. Un autentico rivoluzionario, un leader capace di
infondere la
speranza. Uno come Gesù Cristo, insomma, ma non quello falsificato dalla
Chiesa.
Penso che lui saprebbe risvegliarci dal torpore e guidarci verso la via,
la
verità e la vita.
PS: È di ieri fa la notizia che Nicole Minetti potrà
andare in pensione all’età di 27 anni, cioè il 21 ottobre p.v. Ogni commento è
superfluo e avverto i primi conati di vomito. Il disgusto pervade ogni cellula
del mio corpo, improvvisamente sento il desiderio che la giornata finisca e mi rimbalzano
nella mente le parole di una canzone di Francesco Guccini: “Oh sera scendi
presto, oh mondo nuovo arriva. Rivoluzione, cambia qualche cosa. Cancella il
ghigno solito di questa ormai corrosa, mia stanca civiltà che si trascina”.
www.giuseppebresciani.com
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