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BLACKHAT di Michael Mann (2015)

Creato il 12 marzo 2015 da Ifilms
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Scritto da Davide Dubinelli
Categoria principale: Le nostre recensioni
Categoria: Recensioni film in sala
Pubblicato: 12 Marzo 2015
BLACKHAT di Michael Mann (2015)

Tra i più influenti e celebrati cantori americani del noir contemporaneo, Michael Mann torna, a sei di distanza da Nemico pubblico - Public Enemies (2009), in un nuovo progetto tanto ambizioso quanto scisso, le cui due anime ( cinema di azione che, tendendo la mano al grande pubblico, trasfigura il genere per modellarsi su una visione fortemente personale dei suoi tratti distintivi e cinema d'autore che inonda lo schermo di suggestioni audio-visive e simboliche) spesso faticano a restituire l'idea di un progetto che sia realmente riuscito ad esprimere il proprio potenziale.

Dopo un pericoloso attacco terroristico ai danni di una centrale nucleare a Chai Wan, nei pressi di Hong Kong, compiuto attraverso un complesso sabotaggio del sisitema informatico della base atomica, le alte sfere del governo cinese sono costrette a mettersi in contatto con l'FBI per dare la caccia ai criminali invisibili. Individuata l'origine del codice numerico che ha generato l'intrusione telematica, al galeotto Nick Hathaway ( Chris Hemsworth), esperto hacker dal passato burrascoso a cui è temporaneamente concessa la libertà, è affidato il pericoloso compito di andare a caccia dei terroristi. Sarà l'inizio di una disperata caccia all'uomo (?) condotta tramite una complesa rete di contatti tra California, Hong Kong, Cina e Malesia, al fianco della bella Lien Chen (Tang Wei).

Mann, sulla base di una struttura narrativa debordante di sottotracce e piste secondarie più o meno sviluppate, si (e ci) immerge in un incubo allucinato perfettamente calato nella contemporaneità che esplicita, in maniera fin troppo palese, la volontà si tracciare, all'interno di una rarefatta cornice action, una riflessione sul labile confine tra reale e virtuale. La consueta abbondanza di materia filmica su cui il regista americano ama lavorare, non trova però omogeneità nella sua ambiziosa astrazione che non va oltre l'evidenza. Un cyber-noir in cui la minaccia globale passa da manipolazione telematica, sequenze numeriche, flussi di dati, schermi LCD che filtrano una realtà percepita (e vissuta) grazie alla tecnologia, che però non può fare a meno di un fosco romanticismo di fondo.

In un cinema dell'immagne che vorrebbe essere esperienza sensoriale pura, la parola diventa sovrastruttura informatica e ingombrante, codice binario tradotto in linguaggio verbale che prova a dare un senso alle dinamiche globali. Ma le evidenti lacune di scrittura sgonfiano un prodotto che, nel nobile rifiuto di un montaggio serrato, fatica a delineare la stratificata complessità di un protagonista spogliato di ogni tratto di mistero, il quale si adegua a una meccanica consequenzialità di vacui sviluppi narrativi.

L'allusione si perde, la suggestione metaforica sfuma in un parossistico (e un po' autistico) accumulo di agganci a una contemporaneità indagata con ben altra lucidità nei sublimi Collateral (2004) e Miami Vice (2006), di cui ricalca la straordinaria ricerca visiva attraverso il magistrale uso del digitale. Ecco che la perdita di coordinate fisiche e di identità individuale in seguito a un devastante attacco porta allo sfacciato quanto abusato rimando al dramma dell' 11 settembre.

Rimane un grande sguardo di insieme e l'evidente padronanza del mezzo cinematografico di un regista votato alla settima arte, qui imbrigliato in uno script pedante, la cui logica narrativa diventa pretesto filmico, le pause riflessive maldestre come gli affettati giochi di sguardi tra Nick e Lien, gli scontri a fuoco privi di forza espressiva. E anche quella che vorrebbe essere una simbolica resa dei conti finale, solenne e ieratica, non regge il peso dell'ambizione.


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