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Blackhat: il Mondo Secondo Michael Mann

Creato il 24 marzo 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Blackhat: il Mondo Secondo Michael Mann

Torna al cinema Michael Mann, torna dopo un esilio durato ben sei anni e un titolo, Nemico pubblico - Public Enemies, fra i più classici di una filmografia altrove ben più dirompente ( Strade violente, Manhunter - Frammenti di un omicidio, Heat - la sfida, Insider - Dietro le verità).

Torna all'azione pura, lui che l'azione in realtà non l'ha mai abbandonata, ma soprattutto si ripresenta agli spettatori con un lungometraggio che si ricongiunge prepotentemente alle sue teorie sul mondo e sull'uomo, sui luoghi filmati come romantico prolungamento dell'anima e sugli uomini che li attraversano in cerca di se stessi. Fuori di metafora (e licenze poetiche permettendo) parliamo proprio di esistenzialismo, quello che, nell'attuale cinema d'azione sempre più laccato e infantile, è bandito come la peste bubbonica. Per questo Blackhat, nonostante abbia per protagonisti il lanciatissimo Chris Hemsworth ( Thor, Rush) e una sempre divina Viola Davis, incassa un decimo del più inutile fra i Taken o una briciola quotidiana di Fast & Furious 12. E questo malgrado il tema, quello degli hacker cattivi ( blackhat per l'appunto), sia tra i più cool e attuali fra giovanissimi technology addicted.

Ma a Mann, per fortuna, non interessa seguire le mode del blockbuster, mentre il paragone con i titoli sopra citati, va detto, risulterebbe perfino offensivo nei confronti della sua cristallina e stratificata idea di mondo. Dunque perché questo thriller informatico dalla trama certo non nuova o particolarmente memorabile, riesce ad essere grande cinema, nonché, a parere di chi scrive, uno dei titoli più fulgidi della stagione? Perché, al netto di un intreccio dai connotati parimenti individuali e internazionali (la motivazione "terroristica" da cui origina il plot resta la più ovvia del mondo), è un cinema che si muove insieme ai suoi personaggi, che evolve con essi mutando luoghi e luci, geografia e fotografia e inseguendo la loro urgenza di sopravvivere almeno quanto quella di vivere e amare (qui non si fa l'amore secondo esigenze di copione ma unicamente quando la pelle accende il brivido). Come non amare del resto un cinema che, nonostante le sue stesse imperfezioni, ama a sua volta la medesima materia di cui è fatto?

Mann articola il suo semplice intreccio intorno a esemplari di umanità desiderosi di incrociare le loro esistenze o forse soltanto interessati a far tacere fantasmi dal passato (vedi il bellissimo personaggio di Viola Davis cui il regista regala un'uscita di scena fra le più malinconiche della sua filmografia). Figure vivide dell'umanesimo manniano incasellabili accanto ad altre memorabili come l'agente Will Graham o alle gigantografie di poliziotto e criminale incarnate da Pacino e De Niro. Intorno agli hacker buoni e ai poliziotti di Blackhat c'è il mondo, quello che continua a girare secondo le logiche verticali del potere o le altre orizzontali dell'individualismo, un universo che procede (significativamente) dal basso, dove dati, bit e informazioni scorrono vorticosamente attraverso le architetture avviluppate di cavi sotterranei, fino a "esplodere" a fine corsa in alto, tra centrali nucleari detentrici del potere (energetico) e i luoghi della borsa che determinano i destini economici del'intero globo (e fugacemente filmati da Mann come un Far West decadente e notturno, fra fogli che volano e monitor abbandonati).

Una logica di rappresentazione verticale che sembra rispecchiarsi anche nella progressione dell' action, quello che parte dagli iniziali duelli hackeristici ai limiti della comprensibilità e avanza poi attraverso sparatorie potenti ed essenziali (il cuore del film è la splendida sequenza tra i container) fino a concludersi in un corpo a corpo fisico e perfino tribale (effetto amplificato dallo sfondo della processione religiosa indonesiana). Dai software alle pistole, dal piombo fino al metallo, percorrendo idealmente la storia dell'uomo e della sua battaglia per restare in vita. Non c'è nulla di casuale in queste scelte registiche e di sceneggiatura, eppure tutto appare naturale e non ricercato, perché istintiva, ormai, è divenuta la visione del mondo che Mann l'autore è riuscito a connettere con quella di cinema dell'altro Mann, il regista.

E se il pubblico si rifiuta oggi di premiare un cinema così libero e concettuale ma al tempo stesso accattivante e ritmato, è soltanto perché il più temibile dei blackhat si è già radicato irrimediabilmente nelle coscienze. Non smuove l'economia o la politica di mezzo mondo ma è un bug ben più temibile. E chissà se in fondo Michael Mann, attraverso la sua storia di uomini che ricominciano a vivere e ad amare, non volesse parlarci proprio di lui.


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