Ha scritto Michael Holquist che nel cosiddetto giallo metafisico non è la morte, ma la vita a dovere essere risolta. Queste parole ben si adattano a Blacklands, romanzo di esordio di Belinda Bauer (che la ‘povna ha letto, come ha ricordato a suo tempo, aderendo a questa iniziativa di Marsilio), nel quale una trama noir (anche se non propriamente metafisica) sicuramente sui generis rivela fin dalle prime pagine la spiccata tendenza a volere indagare il mistero non tanto delle morti (tutte già ampiamente riconosciute prima dell’inizio della storia, e per le quali il colpevole già sta scontando la sua pena in carcere), quanto della vita dei suoi protagonisti. Primo tra tutti Steven Lamb, il ragazzino undicenne vittima innocente (del resto: nomen omen) di un delitto (l’omicidio di suo zio Billy quando aveva più o meno la sua stessa età, a opera di un maniaco) commesso prima della sua nascita, che ha gettato la nonna nel limbo della perenne attesa di un corpo mai ritrovato e la famiglia tutta (madre – e sorella della vittima – nonna appunto, Steven e il fratellino di cinque anni) lungo la strada sghemba di una trama ‘sbagliata’. Così il piccolo Steven – troppo grande per la sua età, privo di una figura paterna di riferimento (il padre dei due fratelli è assente, e la madre è tornata ad abitare suo malgrado con la nonna) – si ritrova a vivere, perennemente, sotto l’ombra lunga e oppressiva degli ‘zii’. Primo tra tutti quello biologico e di sangue, il bambino ucciso e straziato ancora senza corpo, e del quale la nonna conserva, per una sorta di legge di morbosa compensazione nostalgica, intatta la cameretta, dove il tempo si è fermato ai giorni della sparizione. Ma ‘zii’ sono anche le varie figure di amanti di cui la madre si circonda, che vanno e vengono, senza riuscire a mettere davvero radici nella casa a tutti gli effetti ‘maledetta’, per dare così alla famiglia quella stabilità perduta e sepolta nell’immagine senza sepolcro di quell’altro zio morto e fantasma, perennemente revenant.
Insensibilmente, dunque, Steven si fa carico dell’infelicità della famiglia. Da un lato completa una trasformazione che lo rende sempre più vicino a suo zio Billy e lo trascina, inesorabile, nel passato (in un orizzonte pre-terzo millennio che, per Steven, è ancora fatto di Maltesers, Marmite, pasta di pesce e Bovril). Dall’altro decide di provare a smuovere l’immobilità del tempo, andando incontro (addirittura: creando) a quell’evento che possa rimettere in moto la sua storta famiglia, salvandola dall’implosiva, progressivamente marcescente, immobilità. Steven comincia così a scavare per cercare il corpo dello zio morto, nella brughiera romantica (e perversa) che circonda il paese. E, tentativo dopo tentativo, arriva a decidere di sfruttare il suo unico talento (una capacità di scrivere lettere che, ancora una volta, è anacronistica rispetto al suo tempo e alla sua età) per rivolgersi direttamente al serial killer (che sta scontando la pena nel carcere di Dartmoor, e qui il pensiero corre a Eden Philpotts e a Dame Agatha), ingaggiando con lui una partita di inganno, astuzia e verità. Inutile sottolineare la presenza di questa ennesima figura maschile e sghemba – così come il gioco con la sindrome di Stoccolma messo in atto dalla Bauer. Ancora una volta, non sono la morte (già avvenuta), né la colpevolezza (già acclarata) che interessano (tanto che l’ultimo, decisivo, indizio, necessario per recuperare il corpo di Billy è sotto gli occhi del lettore fin da subito, come la lettera rubata). Ma soprattutto la relazione perversa tra la vittima e il carnefice, le pause, i silenzi, il gioco di identificazione e i punti di vista. Uniti a un paesaggio che si fa elemento sempre più attivo nella storia. Fino alla resa dei conti: attesa, provocata, logica, necessaria. Alla fine della quale il romanzo si chiude aprendo alla speranza di un tempo che ritorna, finalmente, a scorrere – con l’immagine di un orto in semina, e un terreno che ritrova il suo ruolo di concime per germogli, oltre che luogo sepoltura. La Bauer riesce così a costruire un romanzo di tensione e intelligentemente psicologico, con pochissima azione e personaggi, il cui risultato, complessivamente (e a prescindere da alcune leggerezze, comunque presenti, nell’intreccio), è comunque di un certo valore.
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