Nella mia vita, molto probabilmente perché con le ragazze andava molto male, credo di aver letto davvero tanto - anche se, come dico sempre, non si ha mai letto/visto mai abbastanza - e se ho provato a cimentarmi con la scrittura, naturalmente è proprio per via di questo fattore. Ma se dovessi scegliere fra tutti gli autori che ho letto, quello che preferisco credo sia sicuramente il poliedrico Philip K. Dick. Uno che si è fatto conoscere principalmente per la fantascienza ma che nel suo curriculum ha anche diverse opere drammatiche, come Confessioni di un artista di merda e Mary e il gigante. Che fra le altre cose è anche l'autore di cui ho letto più lavori, seguito poi da Stephen King. A questo aggiungo anche che, per quanto io possa dire all'istante quali sono i miei fumettisti o registi preferiti, la cosa mi risulta più ardua con gli autori letterari, perché in quel campo non sono così legato al 'nome' come mi accade in altre materie... eppure quando mi chiedono quale sia il mio scrittore preferito, rispondo sempre che è il buon Filippo, senza dubbio alcuno. La passione per il suo lavoro comunque mi venne durante la seconda superiore, periodo in cui, dopo aver visto millemila film tratti delle sue opere (tipo il da sempre amato Minority report), mi ero deciso a leggere finalmente qualcosa di suo, e periodo in cui la Fanucci mandava in libreria le nuove edizioni dei suoi lavori. Il primo libro da me prescelto fu La svastica sul sole, da allora ben piazzato agli inizi della mia ideale top10 dei libri.
Los Angeles, 2019. Dei replicanti, androidi organici usati per i lavori più duri e dalla durata vitale limitata, fuggono dalle colonie extramondo dove erano situati e, in maniera piuttosto rocambolesca, cercando di entrare nella Tyrell Corporation, l'azienda dove erano stati creati. Rick Deckard, cacciatore di androidi, viene quindi chiamato per poterli eliminare, eppure l'indagine...
Parlare di un film come Blade runner credo sia una bella gatta da pelare per diversi motivi. Il primo è che è uno dei cosiddetti 'capolavori moderni', quindi un'opera che nel tempo è diventata intoccabile e sulla quale si è discusso in più di una maniera, finendo per far diventare già sentito tutto quello che si vuole dire a proposito. Il secondo è, molto semplicemente, che è davvero un film bellissimo, quindi un film di cui è molto difficile scrivere. Perché basta dire che è un capolavoro per dire tutto quello che serve, e tutto il resto suona come un mero riempitivo. Ma cosa si può dire, quindi, di una pellicola come questa? Innanzitutto che ormai, nonostante sul groppone abbia più di trent'anni, non sfigura per nulla con le mega-produzioni moderne in quanto a resa tecnica. Magari certi passaggi possono sembrare un attimo 'finti', ma non si può fare a meno di rimanere basiti davanti alla bellezza degli effetti speciali che, oltre ad essere di un realismo sconcertante (e pensare che al grande Moebius fu offerto di entrare a far parte della pre-produzione, offerta che lui rifiutò, pentendosi, per seguire un altro suo progetto) non sono mai usati per uno sterile sensazionalismo, quanto per una ricercatissima realtà e bellezza compositiva, che fanno intuire quello che fu il passato del regista Ridley Scott come fotografo. E dato che parliamo di fotografia, anche quella di Jordan Cronenweth ci mette molto del suo, e infatti se già Scott fa valere appieno la sua maniacalità compositiva, questa viene adeguatamente innalzata proprio da un uso assoluto e assolutamente congeniale delle luci. E poi sì, c'è anche la storia, una storia bella e apparentemente semplice ma che però si prende tutti i suoi ritmi, sonda la psiche dei vari personaggi e offre delle scene meritatamente entrate nella storia del cinema. Anche qui però bisogna stare attenti nel valutare il film e l'opera cartacea di Dick [Ma gli androidi sognano pecore elettriche?] da cui è tratta, perché questa è una rielaborazione che in parte stravolge quelli che erano gli intenti dello scrittore - che morì poco prima del completamento del film. Dove Dick sottraeva, Scott aggiunge, alcuni particolari sono sacrificati a quella che è l'economia narrativa cinematografica e altri ideati appositamente per il film. Il risultato è quindi quello di due opere che, anche se con il medesimo innesto, sono totalmente in disaccordo fra loro, poiché figli di due periodi culturali (1968 e 1982) molto diversi, con le loro fobie e i propri tic che non sono sfuggiti agli occhi attenti dei due autori. Nell'originale cartaceo si aveva paura della guerra nucleare, e la Terra era quindi diventata un inferno post-apocalittico da cui la gente cercava di emigrare; il film invece, che per rifarsi proprio alla natura hard boiled che ha sottopelle sposta il tutto dalla California a Los Angeles, fa vedere un mondo caotico, distrutto dall'inquinamento e con una multi-etnicità così smisurata da aver fatto perdere qualsiasi precisa idea di natura culturale. In un mondo simile, così vasto ma al contempo stretto, circondato da messaggi, persone e pubblicità, come fa una persona a mantenere intatta la propria identità? E cos'è l'identità? Sono questi i temi che il film cerca di analizzare, prendendosi tutti i propri tempi e concedendosi così a diverse lentezze, perché per quanto venga spesso spacciato per un film d'azione, il genere si sposa all'accompagnamento di quella che è un'indagine che, a lungo andare, si rivelerà fin troppo personale. Nietzsche scriveva che "se guardi nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te", e Deckard in quell'abisso ci guarda con entrambi gli occhi, finendo per esservi inghiottito, passando così da un inferno all'altro. Il primo offerto da un mondo che non sembra più in grado di gestire i propri figli, una società alienante da far confondere gli umani veri coi loro similari (gli androidi), il secondo offerto proprio da quella che è la realtà, che il più delle volte non ci offre proprio le risposte che in realtà vorremmo sentire. Una realtà dura che, ironicamente, si è abbattuta anche sulla produzione della pellicola, che ha avuto la propria ragion d'essere solo con la ultimate cut del 2007, quella nella quale Ridley Scott ha avuto (finalmente!) piena libertà per sistemare il montaggio come inizialmente aveva desiderato, sostituendo il finale rassicurante inizialmente imposto dalla produzione con quello cupo e claustrofobico da lui desiderato. Proprio quel finale che dà senso a tutto quello che lo precede e che dà vera ragion d'essere a questo film, una vera gioia assoluta per gli occhi e, soprattutto, per la mente. Anche se stringe la gola con una dolorosa delicatezza.
"Io ne ho viste cose...", recita Rutger Hauer nella famosa scena. E anche noi umani ne abbiamo viste parecchie. Una di quelle che meritava era, per l'appunto, proprio questo film.Voto: ★★★★★