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Questa ultima interpretazione è quella che ha fatto scrivere a Pascal il suo aforisma della stanza, considerare che gli uomini tendono a divergere dal loro necessario che è quello di restare nella propria interiorità e considerare il sè come risorsa unica e bastante per incontrare l’identità propria e di Dio.
Pertanto ‘uscire’ dalla stanza significa non ‘riuscire’ a conoscere ed essere in-felici, dentro la felicità e fuori di se. Il pensiero di Emilio Tadini sul pensiero Blaise Pascal invece è tutto dentro la modernità, quella modernità che assume l’essere umano come una componente di un insieme molto più vasto, molto più laico, aperto e interrogantesi non più solo sull’assoluta identità tra uomo e Dio ma piuttosto nella ricerca della spiritualità nelle relazioni col Mondo. Non conosco il pensiero di Francesco Tadini sulla stanza, unica o innumerevole, ma m’immagino che la sua ermeneutica sia già comprensiva della scelta del pensiero di un pensiero, di averla trasposta in un contenuto digitale e averla messa a disposizione di un interlocutore ideale, nel discutere di arte, in uno spazio fuori dalla sua galleria, quando ognuno di noi sa che l’arte non si occupa di arte ma si occupa di spazio, che uno spazio può essere tanto infinito quanto contenuto, dentro una cornice o dentro la luce di un riflettore o comrpesso dentro un byte. Tadini padre riusa Pascal per farne altro, come i dadaisti usavano la Gioconda per disegnarci dei baffi, non per spregio, piuttosto per arricchire l’opera di Leonardo di quel mancante segno interpretativo che faccia riflettere come uno specchio deformante. Ma riusa un pensiero non solo per riprodurlo ma ricontestualizzarlo dentro lo Spazio che si è intanto modificato col Tempo.
Lo spazio che intercorre tra pensiero e stanza è la relazione comunicativa, il concetto che è diventato prodotto e ha modificato nel tempo che viviamo, i mercati, il lavoro, l’intimità, le identità.
Tadini scrive che “forse tutto il Male deriva dal fatto che noi non sappiamo vivere secondo un giusto sistema di relazioni “..tanto con gli oggetti che abbiamo intorno quanto con le persone che vivono in altre stanze.
Questo non è il pensiero del Pascal del 1650, che viveva pienamente dentro la monarchia assoluta del Re Sole, l’emblema dell’estroversione politica, ma potrebbe esserlo di un Pascal nostro contemporaneo, nella fase più edonista ed estroversa della storia umana, dove essere è sinonimo di apparire e comunicare.
Dove soprattutto questo assioma è diventato tale per la consuetudine ma anche per gli eventi tecnologici che hanno assunto forma di postulati, decisi dal mercato senza dover dimostrare la loro effettiva utilità e che hanno la loro intrinseca verità nel successo del marketing.
La monarchia assoluta degli oggetti e del loro consumo, come lo era il consumo dell’idea di Monarca ai tempi di Pascal, impone all’intellettuale nostro contemporaneo di chiudersi dentro la sua stanza a riflettere sula verità delle sue relazioni con l’attorno, di fare un passo indietro per cogliere la giusta prospettiva e tracciare quelle linee di fuga che servono per capire il quadro, tracciare dei baffi per completare l’opera e ascoltarsi.
Perchè nelle nostre stanze iperconnesse e omniconnese l’unica persona con cui siamo sconnessi siamo noi stessi. Quello che mi ha impressionato maggiormente in tutta questa riflessione divertita che intreccia Tadini, padre e figlio, Pascal e la Gioconda, gli oggetti, le stanze e gli iphone è che Pascal è considerato a tutti gli effetti uno dei mentori dell’informatica , avendo costruito il primo congegno che fondeva i principi della meccanica degli orologi e il calcolo matematico; e tutti noi sappiamo che gli elaboratori elettronici si basano sulla scansione digitale del tempo, il clock elettronico, e la computazione sempre più veloce di elementari operazioni di basso livello, come un abaco evoluto ma pur sempre elementare. Quindi il Pascal protoinformatico, assertore della velocità di calcolo, e il Pascal razionale, che considera l’immobilità introversa come assunzione etica, in qualche modo sono già quella contraddizione tipicamente umana, anzi postmoderna, con la quale facciamo i conti quotidianamente.
Una ricerca di umanità con la tecnologia, una ricerca di identità nella virtualizzazione del se, una necessità di liberarsi dalla morte con la memorizzazione del sè in ogni attività che si compia. Infine dedicherei all’arte un piccolo mio pensiero. Saper vivere secondo un giusto sistema di relazioni è un’impresa titanica per un uomo solo, o meglio per un uomo da solo.
Un uomo chiuso nella solitudine della propria stanza difficilmente maturerà sapere, conoscenze ed esperienze che gli possano donare quel particolare saper vivere moderno.
Le relazioni sono sempre in funzione di un punto di riferimento, che sia Dio, il materialismo storico, il sesso, la verità, il relativismo o l’eccetera.
Per Pascal la solitudine ed il cogito erano un ecosistema che aveva come equilibrio la Fede, la sua vertigine era constatare che la vita umana era in relazione con la sua fine e la produzione di senso era DIo.
Per chi non crede in Dio le cose si complicano perchè percepisce la sua percezione e sa quanto questa sia malevola e fallace.
Determina il senso dei valori relativamente allo stato del sapere scientifico, del progresso/regresso, dello stato di necessità e delle percezioni, in quella liquidità che lo rende ‘hungry and foolish’.
L’arte è conservazione dello stato immutabile dell’animo umano, dello specifico dell’essere e restare umani, e allo stesso tempo collettore dello spirito del tempo e dei mutamenti profondi del sentire.
Considerando questo credo che l’arte sia quell’essenza rappresentativa di assoluto che può essere assunta come punto di riferimento per restare profondamente umani nonostante le derive di ogni genere.
Quindi più stanze con dentro relazioni, come la stanza di Van Gogh, povera ed essenziale, ma piena di ricerca di colore/calore.
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