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Ciò che segna un distacco tra i due autori è che Berger reinterpretando la fiaba di Biancaneve fornisce un’ennesima conferma del cinema come evidenziatore mitopoietico. Il regista nato in provincia di Bilbao utilizza la favola soltanto a racconto inoltrato, si serve di essa per fornire una possibilità di rivalsa alla povera Carmencita ma non ne segue pedissequamente la natura, anzi ne stravolge per buona parte l’essenza cancellando la figura del principe azzurro e negando di conseguenza la possibilità di un risveglio post-mela avvelenata [1]. Il fatto da notare è che la leggenda, il mito, è creato dalla consapevolezza dei protagonisti sullo schermo (sono i nani, toreri e non minatori, che decideranno di chiamare Carmencita Blancanieves) sottolineando la tendenza concreta dell’uomo a mitizzare la realtà (e, ad esempio, lo farà anche l’approfittatore barbuto che attraverso il mito lucrerà sul sonno di Carmencita). Per chi scrive, dunque, non si tratta esattamente dell’ennesima versione di Schneewittchen perché ogni personaggio è dotato di onniscienza e tutti sanno che Carmencita non è affatto Biancaneve. Ritengo però che l’aver spinto così tanto sulla favola di riferimento (a partire dal titolo!) abbia creato dei meccanismi controproducenti perché ognuno di noi cercherà di valutare il film con uno scandaglio biancanevistico concentrandosi su questioni forse nemmeno troppo importanti (mi vien da dire che l’introduzione della mela è troppo dipendente dalla fola e per nulla giustificata nel momento della corrida) e lasciandone da parte altre che meriterebbero approfondimenti (il legame padre-figlia, l’identificazione toro-matrigna).
Ma è meglio non girare troppo intorno a ciò che più voglio rimarcare. Per farlo è bene citare da qui le parole dello stesso Berger:
La pellicola va in quella direzione: parla delle mie ossessioni, tematiche e visive. Il mio obiettivo come narratore è di sorprendere lo spettatore, è l'unica regola che seguo. Jean-Claude Carrière - sceneggiatore di Buñuel e Milos Forman, tra i tanti - dice lo stesso: se stai scrivendo una sceneggiatura e vedi che una sequenza è troppo logica o che lo spettatore scopre quello che succederà dopo, cambia strada… però rimani verosimile.
Ecco, se c’è una cosa che Blancanieves non riesce a fare è sorprendere lo spettatore (ad esclusione del finale) e questo perché il funzionamento narrativo è di una schematicità lapalissiana; lasciamo da parte le opposizioni evidenti tra chi è buono e chi non lo è, e concentriamoci sull’andatura algoritmica che illustrate le angherie seriali della matrigna non lascia che una prevedibile rivincita da parte di chi ha subito tali efferatezze. Questo, sarà banale dirlo, non giova granché nella visione (che in quanto ad estetica può far la voce grossa) visto l’inalveare del regista in binari agevoli e facilmente intuibili. Sono dell’avviso che superata la fascinazione del “film muto” riproposto nella contemporaneità ci sia necessariamente bisogno di fornire una carica innovativa che dia veramente un senso odierno, non che Berger si astenga dal tentativo (i citati espedienti sonori e altre soluzioni visive interessanti) ma un po’ il canovaccio elementare e un po’ l’ostinata appropriazione fiabesca non gli permettono di appaiarsi a chi sa davvero essere attuale pur maneggiando il passato, vedi Guy Maddin o il coevo Tabu (2012). _____[1] Bisogna ricordare che nella fiaba originale dei fratelli Grimm il finale non prevede la questione del bacio da parte del principe ma ha tutt’altra risoluzione.
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