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Esordio particolare, non-troppo-programmatico, O Sangue (1989) è il primo passo nel cinema di Pedro Costa, e nella sua ora e mezza ci mette poco a sbrigare le faccende “filmografiche”, cibo da dare in pasto ai critici; basta un film così per un regista come Costa, uno solo, per rivelarsi già profondo conoscitore delle prassi visive “normali” finanche dispensatore di Immagini ad alta purezza dove i fotogrammi si inzuppano nell’inchiostro e nell’argento liquido. Ma soprattutto, con questo debutto il lusitano fa un film narrativo, racconta, inscena, rappresenta, pone mano sul girato, si adopera nelle musiche, insomma: si fa sentire.
Nulla a che vedere con le sperimentazioni che verranno quindi, in Blood c’è cinema, se così può essere definito, più classico, ma non di certo consueto: lo scarto dall’ordinario è più che evidente e non riguarda soltanto l’ottimo bianco e nero, piuttosto l’aspetto complessivo marchiato dall’autorialità che annovera accenti di gran classe (notare anche solo la posizione straub-huilletiana degli attori sulla scena), movimenti fluidi, piani stranianti (il primo dialogo e l’ultima sequenza hanno uno sfondo fuori fuoco, quasi – forse – finto) e almeno un paio di istantanee pronte a lasciare il segno.
Succede poi che la vicenda si fa sempre più irrealistica, misteriosa (IMDb non per niente affibbia l’etichetta mystery), e molto si perde nella fumosità di un intreccio che probabilmente non è nemmeno intrecciato, ma viaggia, libero, sulla scorta dell’estro registico.
Costa si toglie il dente già nel lontano ’89: lui sa fare pellicole leggibili da tutti per cui già da Casa de Lava (1994) in poi innerverà il suo tragitto artistico di nuovi sguardi, nuovi paesaggi (umani: In Vanda’s Room (2000), nuovi ritratti (Où gît votre sourire enfoui?, 2001), cibo prelibatissimo per chi ama questa cosa stupenda che si chiama cinema.
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