Simultaneità: è questa la parola d’ordine utilizzata dal portoghese classe 1957 João Canijo che con Sangue do Meu Sangue (2011) costruisce un ecosistema filmico fatto di equilibri fragili prossimi al collasso e convivenze scomode, suddivisione di territori visibili e udibili in cui ammontano contemporaneamente più elementi: bi-tripartizioni, in ogni piano proliferano rigagnoli dialogici, estetici e di genere, infatti, il primo elemento che si ficca subito nell’occhio è la bravura di Canijo nel destreggiarsi all’interno degli spazi casalinghi usando l’architettura delle abitazioni (un muro, una porta, una finestra) come strumento scenografico capace di splittare il quadro, sdoppiando perciò lo spettro visivo dove coabitano immagini legate e ugualmente indipendenti; in questo pregevole gioco prospettico il regista lusitano, assistente di Wim Wenders nel lontano ‘82, fa in modo che le piste audio seguano l’andamento sulla scena e la accompagnino con il loro passo esponenziale disciolto nelle istantanee reali; eppure il linguaggio della pellicola non si sostanzia soltanto in conversazioni a briglia sciolta tra i componenti della famiglia ma sa anche incanalarsi nelle rigidità della rappresentazione e ciò si deve ad un ulteriore fusione, quella categoriale, che vede la concomitanza di generi diversi senza che vi siano note stonate, sicché gli intermezzi romantici tra Cláudia e il dottore che come viene sottolineato da Dario Stefanoni sanno di soap opera decomposta (link) e i relativi squarci drammatici che diventano lacerazioni sanguinolente nel finale, contribuiscono alla creazione di una babelica sinfonia, coincidenza di vite, depressioni ed espressioni, consesso famigliare che mai si concilia a causa di un mondo in dilagante smottamento.
Sangue do Meu Sangue, oltre che cinema di geometria, accorpa anche un motivo di studio etno-geografico dentro di sé: i titoli di coda che scorrono su delle panoramiche di Bairro do Padre Cruz, misero quartiere a nord di Lisbona, suggeriscono la centralità del luogo (rimarcata dal costante ed invadente sottofondo acustico) che un po’ come per la trilogia ambientata a Fontainhas di Pedro Costa annovera al suo interno uno stuolo di ritratti umani stritolati dalle morse di un’esistenza esecrabile: non solo la piccola malavita, non solo la droga, non solo i tradimenti sentimentali, non solo la disillusione dell’età che avanza, ma nuovamente tutto questo proposto e incapsulato in un contesto domestico a-patriarcale, un gruppetto tenuto faticosamente in piedi dalla madre dove le connessioni tra i singoli membri sono piene di cicatrici, fili spezzati e riannodati, legami che si intrecciano, che si amalgamano in un mescolamento spurio che ha nella casa-gabbia il proprio inquinato teatrino: prima ancora del colpo di scena, inaspettato e deflagrante, il legame tra zia e nipote è alterato da una incestuosità silente, suggerita (loro sul divano), illustrata con la scelta conclusiva della donna disposta al sacrificio che precipiterà, inevitabilmente, nel sangue.
Passato anche in Italia al TFF ‘11, il film di Canijo è un compromesso invitante fra cinema, se così si può dire, del reale (lo stesso di Mendoza, di Puiu, ecc.) e cinema della raffigurazione, un’opera che però non si ferma al ritratto sociale, tableau vivantorganico, viscoso, reticolare, quando il melodramma sui generissa ri(/de)generarsi e diventare arte (sudicia).