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Bob Dylan non è un tipo espansivo. Impossibile incontrarlo, conoscerlo, parlargli, intervistarlo. Sale sul palco senza salutare, si mette su un lato a pigiare i tasti della pianola che non sa suonare e tortura con la sua voce arrugginita canzoni dagli arrangiamenti irriconoscibili. Tempest, il più recente arrivato di una serie di cinque album di "Western R&B" con la band di cowboys dell'Endless Tour, è come una telefonata confidenziale ricevuta da un Bob angosciato nel mezzo della notte. Non puoi trovare la confidenza con zio Bob nelle frasi delle interviste o nei live show; la trovi nelle canzoni di dischi come questo. Registrato in modo essenziale, nudo e crudo senza alcuna profondità sonora o separazione fra gli strumenti, per la prima volta usa persino la voce consumata e rugginosa che sfodera dal vivo (beh, non proprio così scarsa, in effetti, ma quasi). Che cosa cantino i suoi testi allucinati ed onirici, zeppi di riferimenti e di vivide immagini, è difficile dirlo: c'è di tutto. Ma lo cantano in modo soffuso e confidenziale, parole che Dylan ti sussurra nella cornetta come se ti rivelasse un segreto che lo angoscia.
Alcune canzoni sono le solite, alcune sono semplicemente divertenti (Duquesne Whistle), alcune sono davvero belle (quattro).
La prima è la lunga Narrow Way, la sua tipica tirata anni sessanta in cui sembra raccontare di tutto e i cui versi l'ascoltatore può interpretare come gli fa più comodo.
Scarlet Town è un bel lento nebbioso a la Oh Mercy, con tanto del violino di Hidalgo: "in Scarlet Town, dove sono nato c’è la foglia d’edera e la spina d’argento. Le strade hanno nomi che nn puoi pronunciare e l’oro è ad un quarto di oncia. La musica comincia e la gente ondeggia e tutti dicono “stai andando a modo mio?” Lo zio Tom lavora ancora per lo zio Bill e Scarlet Town è sotto la collina…”
Tin Angel è un lento teso.
Tempest è l'architrave del disco, una magica ballata folk irlandese di quindici minuti e quasi cinquanta versi in cui Dylan canta immagini dell'affondamento del Titanic mentre la canzone, verso dopo verso, ti strega irresistibilmente.
C'è un'ultima canzone, Roll On John, a chiudere il disco, non eccezionale come musica ma i cui testi Dylan dedica al vecchio compagno dei sixties John Lennon, l'artista che con lui (e Paul) ha generato la musica rock.
"Shine your light, move it on, you burn so bright, roll on John
From the Liverpool docks to the red light Hamburg streets
Down in the quarry with the Quarrymen.
Playing to the big crowds Playing to the cheap seats
Another day in your life until your journey’s end
Shine your light, move it on, you burn so bright, roll on John
Shine your light, move it on, you burn so bright, roll on John
I heard the news today, oh boy
They hauled your ship up on the shore
Now the city’s gone dark
There is no more joy
They tore the heart right out and cut it to the core
Shine your light, move it on, you burn so bright, roll on John
Put on your bags and get ‘em packed.
Leave right now you won’t be far from hine
The sooner you go, the quicker you’ll be back
You’ve been cooped up on an island far too long"
P.S.: le parole che seguono le avevo scritte su Dylan l'ultima volta. Le ripropongo.
Dylan c'è. E la cosa è molto rassicurante. Credo sappiate di chi sto parlando. Dell'uomo che nel corso degli anni sessanta ha scritto il songbook della musica rock. Dell'uomo che, in concerto con i Beatles, ha inventato la musica rock. Del musicista che negli anni settanta ha registrato Blood On The Tracks, Desire, Street Legal, Slow Train Coming e negli anni ottanta Infidels e Oh Mercy. Nei novanta ha intrapreso il suo tour infinito, ma dal punto di vista discografico ha latitato. Negli anni duemila è tornato, e nonostante la sua bella età ci rifila con regolarità gemme del calibro di Time Out Of Mind, Love And Theft, Modern Times. È bello che in un mondo che ha così deluso le aspettative, Dylan ci sia ancora. Da quando io ho ricordi, lui c'è. Questa cosa mi fa sentire ancora giovane... è come se ci fossero ancora JFK e John Lennon...
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