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Bodini vittorio, inquieto prigioniero del tempo fermato

Da Upilmagazine @UpilMagazine

Schivo, timido, inquieto. Così è stato per tutta la sua vita Vittorio Bodini, poeta leccese, classe 1914, costantemente impegnato in una spasmodica ed accanita recherche, in una sua personalissima sperimentazione poetica. Capita a noi del sud di dimenticare intelletti e figure della nostra terra o di sfiorarli appena senza intuirne la loro grandezza. Succede con Bodini che invece meriterebbe un’attenta rimeditazione, perché nella sua poetica sono racchiuse le mille sfaccettature e contraddizioni del vivere. Come farò a sapere dove sono, fino a che punto sono morto o vivo, le cose da lasciare e quelle da prendere.
In ognuna delle sue poesie ci sono tutti i sentimenti e gli affanni di un uomo che ha sempre avuto fame e sete di vita, perché il senso di precarietà e di fine non lo hanno mai abbandonato. Ed allora egli scava nelle origini, nei miti, nelle tradizioni ancestrali ed archetipe del suo sud e cerca nel senso del ritorno e di appartenenza un’àncora che trattiene, contro la paura del tempo perduto. Le sue poesie evocano i suoni, i colori, gli odori, i dolori, i tramonti insanguinati, le lune, di un Salento odiato ed amato: qui non vorrei vivere dove vivere mi tocca, mio paese, così sgradito da doverti amare; lento piano dove la luce pare di carne cruda ed il nespolo va e viene fra noi e l’inverno.
Si sentiva imprigionato dal mondo statico e soffocante della provincia, Bodini, condizione naturale per uno squisito intellettuale quale egli era, che guardava all’Europa, culla di fermenti culturali degli anni ’50. Lecce è “la fossa dei leccesi” e, come il suo Barocco, vacua ed apocrifa: Sui cornicioni corrono angeli dalle dolci mammelle/guerrieri saraceni e asini dotti./Un frenetico gioco/dell’anima che ha paura/del tempo/ moltiplica figure,/si difende/da un cielo troppo chiaro./Un’aria d’oro/mite senza fretta/s’intrattiene in quel regno/d’ingranaggi inservibili fra cui/il seme della noia/schiude i suoi fiori arcignamente arguti/e come per scommessa/un carnevale di pietra/simula in mille guise l’infinito.
Quel seme della noia ha fatto sì che dal tempo dei Borboni il sud si fermasse, impantanato nell’immobilità del “tutto cambia perché nulla cambi” – come nel credo gattopardiano del Tomasi di Lampedusa – che Bodini traspone nei suoi versi come metafora di una triste condizione dell’esistenza. I pomodori secchi/attaccati ad uno spago/e le donne dai cuori di cicoria/[…]/tutto è univoco e perso a furia di esistere/Dove hai nascosto, cielo, l’altra ipotesi?/Non saremo null’altro/che rozzi testimoni di questo esistere?
C’è in lui uno speciale maledettismo che lo collega ai poètes maudits, con la sua smaniosa agonia, lo smarrimento surreale che si fa sempre più acuto con l’avvicinarsi della fine, che Bodini avverte e che non fa nulla per evitare. Trascorre parte dei suoi ultimi anni in una Roma notturna e decadente, insieme ad un altro grande e “superbarocco” conterraneo, Carmelo Bene, che gli affidò la parte senile ed onirica di Don Giovanni nella sua delirante opera omonima. Tante erano le similitudini tra i due, tanto da renderli espressione simbolo di un nuovo barocco “novecentesco”.
In una lettera indirizzata al regista, Bodini commenta il Don Giovanni e scrive: Se Gòngora, se Borromini e gli altri avessero potuto vedere il tuo film, non avrebbero mancato di accorgersi che il cinema è l’arte più barocca che ci sia, perché in esso coi colori, con la materia, con la parola, spontaneamente si dà quel dinamismo che essi perseguirono con mille accorgimenti, con quella totale labilità e momentaneità delle immagini che corrono rapidamente incontro alla loro distruzione, come nella terzina di un famoso sonetto di Quevedo:
Ieri sparì, Domani non è giunto,
l’Oggi se ne va senza fermarsi.
Sono un Fu, un Sarà, un È già spento.”

Bodinvi vive una stagione frenetica, senza darsi pace. Come se ogni giorno fosse l’ultimo come se ogni poesia fosse l’ultima e sfoga la sua passione per l’alcool e le sigarette, dopo un infarto da lui stesso definito “un cortese anticipo di morte”. Nello svilimento fortemente barocco e leopardiano dell’infinita vanità del tutto, egli si chiede: Ma gli anni? Dove son gli anni/e tutti i libri che ho letto?/I volti amati si sfrondano/delle loro vicende,/non restano che i nomi./Tutto nella memoria/cade a pezzi, sprofonda/senza rumore/nelle botole dei morti/[…] Dove si nasconde il senso/delle cose che ho vissuto/e i brividi lucenti/e i cieli dell’avventura?
E così, lentamente, Vittorio sceglie di andar via, bruciando gli ultimi anni rimasti in una condizione di morte attesa come liberazione. Muore a soli 56 anni o, come dice Oreste Macrì suo grande amico e curatore, “cadde sul lavoro”.
È notte e dovrei lavorare e una poesia
lascerò sul tavolo, come un biglietto di scuse,
diretto a me, per domani. Se mi desterò.
In una delle sue ultime poesie ci scrive: Sparì come una promessa, come una piuma ferita a morte”. Un imbarazzante presagio il suo, visto che moltissimi oggi lo hanno dimenticato ed il suo nome, come anche i suoi versi, non compaiono in alcuna delle antologie poetiche del ‘900.
Peccato! Perché leggere Bodini è piacere e godimento. Rileggerlo è scoperta.

 

Come una mezzaluna nel sole di maggio,
la tazza di caffè, le parole perdute,
vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano:
divento ulivo e ruota d'un lento carro,
siepe di fichi d'India, terra amara
dove cresce il tabacco.
Ma tu, mortale e torbida, così mia,
così sola,
dici che non è vero, che non è tutto.
Triste invidia di vivere,
in tutta questa pianura
non c'è un ramo su cui tu voglia posarti.


POESIA TRISTE ALLA POESIA

Poesia, struggenti inchieste
sulla verità dell’essere,
scegliemmo la tua scorciatoia.
Non ci hai portati lontano,
no davvero.
Sì, qualche volta l’ebrezza
d’esser vicini a qualcosa
ma in che rari momenti
e a che prezzo
d’insofferenze, di rotture
d’ogni più delicata trama d’affetti!
Odio financo il delicato verde dell’estate
che attornia le mie finestre.
Venga la mano di chi so e liberi
dall’angoscia i miei risvegli.

 

Viviamo in un incantesimo,
tra palazzi di tufo,
in una grande pianura.
Sulle rive del nulla
mostriamo le caverne di noi stessi
qualche palmizio, un santo
lordo di sangue nei tramonti, un libro
lento, di pochi fatti che rileggiamo
più volte, nell'attesa che ci dia
tutte assieme la vita
le cose che crediamo di meritare.

 


XANTI - YACA

Solo quando tu entrasti
la barca fu piena,
e il barcaiolo coi buchi nella maglietta
fece sparire la nazionale
che gli diedi perché remasse di spalla.
Così il mare quel giorno
poté maturare ricordi per dopo.
Al tempo dell'altra guerra contadini e
contrabbandieri
si mettevano foglie di Xanti-Yaca
sotto le ascelle
per cadere ammalati.
Le febbri artificiali, la malaria presunta
di cui tremavano e battevano i denti,
erano il loro giudizio
sui governi e la storia.
Così semplice,
che noi non lo avremmo fatto.
Uno l'ho visto io
camminare col capo in giù
sul soffitto,
altri bevevano a un pozzo
di scorpioni e di serpi,
non senza gridi,
nel viola acido e sporco
d'una cappella,
mentre fuori era il chiaro giorno
steso coi piedi avanti
come il Cristo del Mantegna.
Così mi disorienti
se ti guardo vivere:
io vedo tutte le insidie
e tu sei un grande pesce senza testa,
disordinato e prode,
che smuove più acqua del necessario,
ed è quando mi dici disperata
"Vorrei già avere trent'anni".
 


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