I corpi continuano a essere donati alla scienza. In Tennessee una grande fotografa si è addentrata anni fa in un bosco recintato appartenente a un fondo federale di antropologia forense dove si cerca di dare risposte sul tasso di decomposizione dei cadaveri e il suo obiettivo ha visto tutto.
Sally Mann è uno dei nomi più noti nel mondo della fotografia contemporanea. Classe 1951, è nata a Lexington, in Virginia, mentre il suo incontro con la fotografia risale al 1975, spinta da una motivazione più che comprensibile: restare nella camera oscura insieme al mio ragazzo.
Fra tutti i progetti realizzati, senz’altro è Immediate Family (1992) quello che l’ha resa più famosa e che al contempo le è valso più critiche. Protagonisti del lavoro sono i suoi tre figli, che all’epoca avevano 4, 7 e 10 anni, ritratti spesso nella loro nudità. Protagonisti degli scatti sono i loro giochi, le loro occupazioni, ma c’è sempre la sensazione che si stia andando più in là, che siano anche altri i temi di cui si vuole parlare, non ultimi il sesso e la morte. Il suo lavoro è stato elogiato, ma anche criticatissimo: per il contenuto pornografico, perché una madre non dovrebbe lucrare sul corpo dei propri figli, perché profondamente disturbante. In particolare, Raymond Sokolov pubblicò sul Wall Street Journal un articolo intitolato “Criticism: Censoring Virginia” in cui le classiche strisce nere della censura erano applicate sugli occhi, i capezzoli e il pube della figlia di Sally Mann, come a indicare tutto quel che non andava in quello scatto.Ma il lavoro di cui voglio parlare non è questo. Successivamente Sally Mann si dedica al tema del paesaggio e in Still Time riproduce una visione onirica e profondamente poetica del profondo sud statunitense. E, soprattutto, dà una propria visione della morte nel lavoro What Remains (2003). Il lavoro è suddiviso in cinque parti e – almeno per quel che ho potuto vedere in rete – è come un puntello che ti si pianta tra gli occhi. La terza parte riguarda scatti realizzati nella sua proprietà, dove venne ucciso un evaso armato. Poi c’è uno studio del territorio di Antietam, che durante la guerra civile fu teatro di una battaglia sanguinosa. Infine tornano i suoi figli, dei quali vengono proposti dei bellissimi primi piani.
La seconda parte non l’ho dimenticata, e se la nomino per ultima c’è un motivo preciso. Il capitolo si intitola infatti “Body Farm” e si tratta di una serie di scatti realizzati presso un fondo federale di antropologia forense dell’Università del Tennessee. Uno degli argomenti di studio e di ricerca sono i tassi di decomposizione del corpo umano, in modo tale da acquisire maggiori strumenti per determinare, ad esempio, l’epoca del decesso, le modalità e via dicendo. La scena, a descriverla, è fra le più raccapriccianti che si possano immaginare: 10.000 metri quadri di terreno alberato e recintato e, sulla proprietà, corpi lasciati a decomporsi naturalmente, alle intemperie e in condizioni variabili (esposizione, posizione) in modo da poter fornire risposte a eventuali future indagini.
Questi corpi sono donati alla scienza, esattamente come accadeva già nel passato per dare impulso agli studi di anatomia. I numeri della struttura pare siano molto alti, con oltre 100 corpi donati ogni anno e moltissime pre-registrazioni. Ma comunque non tutti quelli che si trovano lì lo hanno deciso: talvolta può essere la famiglia a regalare il corpo di un proprio congiunto, a volte invece è il medico legale a farlo, decidendo di fatto per coloro di cui non si occupa nessuno, dopo la morte.
Guardare queste immagini è difficilissimo, perché la morte appare in uno stadio spesso molto avanzato e, per quanto venga presentata attraverso il filtro dell’arte, della foto d’autore, non c’è santo che regga: io alcune le ho aperte e subito chiuse, perché sembra quasi di sentirli, l’odore acre della decadenza e il biascichio degli insetti sarcofagi. Da immagini come quelle di “Body Farm” si può essere attratti o profondamente a disagio. E ogni reazione è comprensibile. Quello che è interessante è osservare come elementi del corpo – il gonfiore, i brandelli di tessuto o di carne – vengano a volte isolati, ed evidenziati, come si trattasse di altro. E quello che è interessante osservare è il capitolo inserito nel lavoro nel suo complesso. Un lavoro disseminato di morte, di decomposizione, di violenza e che termina coi volti dei figli perché, alla fine, se ci chiediamo cosa resta, la risposta di Sally Mann sembra essere inequivocabile: l’amore.
di Silvia Ceriani
Per approfondire:
leggi l’articolo del New York Times, “The Disturbing Photography of Sally Mann”
leggi l’intervista all’autrice, “The Touch of an Angel”, dove emerge il suo punto di vista sulla morte
guarda il video Body Farm
per vedere altre foto di Sally Mann, vai sul suo sito: http://sallymann.com/