E’ un calderone di tradizioni, vecchie, nuove, dimenticate e ritrovate, pagane e cristiane, familiari e dell’intera comunità. E’ il Natale, sa Paschixedda per dirla alla campidanese. Pur essendo oggi uno dei periodi più attesi di tutto l’anno, del Natale, di quello sardo per lo meno, si è scritto poco, quasi che poco ci fosse da dire, quasi che ieri non fosse la più importante festa dell’anno.
Eppure la tradizione natalizia si lega a diversi aspetti, siano essi gastronomici, familiari, religiosi o magici. Un puzzle dai colori tenui che pure merita d’essere ricomposto.
Il cibo
Le società tradizionali non conoscevano l’abbondanza che è delle tavole dei nostri giorni. La tavola veniva imbandita con una relativa generosità esclusivamente il 25, il giorno di Natale, mentre il 24 notte, sa nott’è xena, per quanto famiglia e vicinato si riunissero, il pasto era ben più frugale.
Lo sfarzo si dimostrava invece nella confezione del pane e di alcuni dolciumi tipici del periodo. Pani speciali venivano preparati, decorati e regalati specie ai più giovani. Era raro che in questo periodo il dono dovesse essere richiesto, era invece più comune che i ragazzini ricevessero un dono spontaneo da parte degli adulti. In Ogliastra ad esempio veniva donato un bellissimo pane a forma di cuore, di giglio, di stella, di pesce o di uccello; addirittura si poteva ricevere un pane a forma di neonato, su accèddhu, il bambinello appunto. Il pane era lavorato minuziosamente, con una ossessiva dovizia di particolari, ad attestare l’importanza del periodo e della festa che si celebrava. Su accèddhu veniva raffigurato con tanto di capelli, sesso e cordoncino legato intorno alla vita, ad indicarne l’incredibile povertà.
In Gallura invece si era soliti donare la franka e lu kubòni, la bambola ed il corvo , l’una alle bambine, l’altro ai maschietti.
A Thiesi la sera della vigilia di Natale erano i bambini più poveri a chiedere, presso le case di chi stava meglio, del pane. Lo si faceva recitando una breve filastrocca, che augurava tutto il bene possibile a chi avesse donato il pane conosciuto con il nome di su bakkìddhu, che possedeva la caratteristica forma del bastone pastorale. Più spesso questo pane veniva richiesto e donato durante i festeggiamenti del primo dell’anno e dell’Epifania.
In località di Orotelli ad essere donato per Natale, a grandi e ragazzi era su pan ‘e paska, mentre ad Olmedo si confezionava un caratteristico presepe interamente realizzato con il pane.
Dolci tipici del periodo erano invece le papassine, piccole pagnottine dolci realizzate utilizzando farina, sapa, uva passa, noci, nocciole e mandorle.
Il ceppo natalizio
Tradizione antichissima quella del ceppo natalizio, accomuna moltissimi paesi europei, probabilmente degradazione dell’uso dell’abete solstiziale, scomparsa fra le popolazioni italiane con la cristianizzazione e tornata in auge solamente agli esordi del novecento. Il ceppo doveva essere acceso la vigilia della notte di Natale e aveva lo scopo di scaldare il Bambin Gesù. Bruciava fino all’alba ma si doveva aver cura che non venisse consumato interamente dato che ogni giorno lo si doveva riaccendere fino almeno all’Epifania. La tradizione vuole che queste attenzioni avrebbero portato fortuna alla famiglia.
Il discorso da farsi per la Sardegna è molto similare. Su troncu de xena o sa cotzina de xena accesa la notte della vigilia, doveva rimanere acceso per tutto il periodo festivo. Nella zona algherese si trattava di un tronco d’ulivo definito tu frone de nadal e dinanzi a questo si scaldava l’intera sacra famiglia.
Esattamente come accadeva durante la Pasqua anche nei giorni che precedevano il Natale ci si occupava delle grandi pulizie della casa. Questa alla fine poteva essere decorata con rami d’ulivo, rametti di menta o di alloro. Quest’ultimo veniva usato per decorare oggetti custoditi negli armadi, sa skidonera ad esempio, un tipico telaio in legno con tanto di gancetti per essere appeso al muro.
Espressioni magiche e religiose
Il potere magico del solstizio d’inverno, tradizionalmente festeggiato il 21 di dicembre, immediatamente dopo la cristianizzazione si dovette obbligatoriamente traslare al 25 dicembre, data che nel 336 d.C. venne considerata convenzionalmente quella della nascita di Cristo. Ereditò dunque un bagaglio mistico davvero notevole che pare essere in parte sopravvissuto ancora nel ricordo e nelle tradizioni d’oggi.
Conclusasi la cena della vigilia di norma la famiglia seduta intorno al fuoco si intratteneva con il gioco. Fra i più gettonati, specialmente nella zona del campidano c’era su barrallicu, una trottola a più facce sulle quali potevano essere incise quattro diverse lettere. Se la trottola fermandosi avesse indicato una T (tottu), il giocatore avrebbe preso tutto il piatto, ma poteva anche fermarsi su una M (mesu o mitadi) e in quel caso si sarebbe vinta la metà. La N invece indicava nudda, ossia nulla e la P era la casella più sfortunata dato che stava ad indicare poni, ossia metti.
Ovviamente i giochi con i quali intrattenersi non finivano certo qui, eppure in molti al gioco preferivano il racconto intorno al fuoco. Qualsiasi attività si fosse scelta, la si sarebbe interrotta molto velocemente in prossimità della mezzanotte, quando prendeva avvio sa miss’è pudda, la messa del primo canto del gallo. Il nome è probabilmente di derivazione catalana dato che anche in Spagna si conosce la Missa del Gall, e ci si è convinti che faccia riferimento all’ora tarda (prossima al giorno) nella quale veniva celebrata.
Le autorità ecclesiastiche dell’epoca riportano sdegnosamente delle sregolatezze cui si potesse assistere durante questa messa. A parte un chiacchiericcio di sottofondo, giustificato dal ritrovo di tutto il paese in chiesa, i ragazzi erano soliti lanciare bucce di noci o di mandarini verso le ragazze più graziose per attirarne l’attenzione, e pare che non fosse così raro assistere a manifestazioni di gioia ben più pericolose. Per quanto fosse vietato esplicitamente sembra che fosse pratica comune quella di sparare all’interno della chiesa e soprattutto all’esterno.
Alla messa della vigilia non potevano davvero mancare le giovani donne in stato interessante. La tradizione vuole che la miss’è pudda avrebbe guarito un feto eventualmente malformato o malato, tramite un’operazione di tipo esorcistico esattamente come lascia intendere il detto “sa bestia si furrìada in cristianu”. Le donna incinte che decidevano invece di non partecipare alla messa, rischiavano di dare alla luce un mostro, un bambino deforme e dalle forme animalesche. Non è raro che la tradizione ricordi di donne che non avendo partecipato alla messa di Natale, abbiano partorito bambini mostruosi, che spesso assumevano la parvenza di scuri esseri svolazzanti, uccelli neri per dirla semplice.
Queste leggende portano in seno germi di tradizioni ben più antiche che meriterebbero un approfondimento.
Il potere di questa notte sacra (un tempo tutto del solstizio d’inverno) non si esauriva certo con il suo potere esorcizzante. La tradizione vuole che esattamente fra Natale ed Epifania le donna che conoscevano l’arte della divinazione e della cura, dei brebus e della medicina dell’occhio esattamente in questo periodo passassero i propri segreti alle future praticanti, a patto che percepissero l’approssimarsi della morte.
Si era inoltre convinti che chiunque fosse nato la notte di Natale avrebbe avuto la possibilità di salvaguardare dalle disgrazie almeno sette case del vicinato (numero di chiara derivazione magica) e che durante la sua vita non avrebbe potuto perdere ne denti ne capelli. Addirittura si riteneva che la persona in questione una volta morta avrebbe mantenuto incorrotto il proprio corpo. A esemplificazione della credenza il detto che recita più o meno così: “chini nascidi sa nott’è xena non purdiada asut’e terra”. (Chi nasce la notte della vigilia di natale non può marcire sotto terra).
Le figure fantastiche
Particolarmente condito è anche il reparto delle creature fantastiche femminili che tradizionalmente scorrazzano per le case dei vivi la notte della vigilia di Natale. L’uso vuole che nessun cibo venga lasciato sulla tavola a fine pasto e per convincere i più piccoli a non lasciare nemmeno una briciola sul piatto ci pensava Maria Puntaborru nel Campidano e la Palpaeccia nell’interno isolano. Megere entrambe andavano la notte alla ricerca dei bambini con la pancia vuota che sarebbero stati inevitabilmente puniti. L’una avrebbe loro infilzato la pancia con uno spiedo, l’altra avrebbe messo sullo stomaco una grossa pietra che l’avrebbe schiacciato. Ovvio e ben visibile il potere educativo della leggenda.
Gli auguri
Fino a qualche decennio fa il nostro buon Natale sarebbe suonato piuttosto come bonas pascas, bonas paschixedda, bonas festas, o norabonas.
Fonti:
AA.VV., 2005. Pani. Nuoro: Ilisso Edizioni.
Alziator F., 1963. La città del sole. Sassari: La Zattera.
Atzei A.D. Le piante nella tradizione popolare della Sardegna. Carlo Delfino Editore.
Cattabiani A., 2004. Florario. Milano: Mondadori.
http://www.gentedisardegna.it/topic.asp?TOPIC_ID=13911