Posted 8 febbraio 2014 in Bosnia Erzegovina with 0 Comments
di Alfredo Sasso
Il giorno dopo il drammatico assedio ai palazzi del potere, a Sarajevo e in Bosnia-Erzegovina si fa il punto sulle conseguenze. Si contano i feriti (circa 200 in tutto il paese secondo Radio Sarajevo, in maggioranza forze dell’ordine), i fermi (37 a Sarajevo, 25 a Zenica, 38 a Mostar di cui 5 in stato di arresto). Poi si contano i danni. Nella capitale, l’incendio che ha quasi completamente distrutto la sede del Cantone è stato domato solo in mattinata. Purtroppo sono giunte conferme sul danneggiamento dell’Archivio nazionale di Bosnia-Erzegovina: come testimonia klix.ba, e’ stato investito dalle fiamme il fondo del periodo austroungarico. Secondo l’archivista Siniša Domažet, nella parte dell’edificio raggiunto dall’incendio si custodiva un fondo risalente al periodo austro-ungarico (1878-1914), composto principalmente di memorie e dossier personali, che dunque sarebbe andato perduto. Si registrano anche danni agli archivi amministrativi di Sarajevo e Tuzla. Va anche ricordata l’iniziativa originale di alcuni manifestanti che si sono dati appuntamento questa mattina nelle rispettive città per contribuire alla pulizia e alla messa in ordine dopo gli incidenti.
Nonostante la liquidità degli eventi in corso, proviamo a tracciare un primo bilancio politico e sociale, e le possibili conseguenze. Anzitutto è un sintomo importante che la “miccia” sia stata Tuzla, quarta citta’ del paese, polo dell’industria pesante e mineraria, fin da un lontano passato terra di rivolte sindacali e movimenti sociali (non a caso alcuni manifestanti di oggi si richiamano alla cosiddetta “Husinska buna”, la “Rivolta di Husino” del 1920, composta da minatori). Ma soprattutto, Tuzla è stata negli ultimi 25 anni una roccaforte progressista, l’unica citta’ del paese a mantenere un sindaco non-nazionalista in tutto il dopoguerra. Ed è un feudo dell’SDP, partito socialdemocratico ed ex-comunista. Proprio l’SDP è stato preso particolarmente di mira dalle proteste di disoccupati e studenti: primo, per la cattiva gestione della privatizzazione delle aziende ora fallite del cantone di Tuzla (dove, come ricorda l’analista politico Ervin Tokic, i social-democratici hanno governato a lungo); secondo, per essere co-responsabili, con gli altri partiti nazionalisti (in primis il bosgnacco-conservatore SDA, di cui SDP è stato fino al 2012 alleato a livello nazionale) per l’impasse politica ed economica in Bosnia.
Un altro segnale importante è che siano stati presi di mira anzitutto i cantoni, cioè le 10 “province” in cui è divisa la Federazione di BiH (una delle due entità in cui è suddivisa la Bosnia-Erzegovina; l’altra è la Repubblica Srpska). Ieri ben 4 cantoni su 10 sono andati a fuoco (Tuzla, Sarajevo, Mostar, Zenica; un quinto, quello di Bihac, è stato danneggiato), perché individuati come volto dell’inefficienza e della corruzione in cui versa la Federazione di Bosnia-Erzegovina. Il punto e’ che nella Bosnia post-guerra i cantoni erano pensati come “contrappeso” politico ed etno-nazionale dentro la Federazione, tra i partiti nazionalisti croati (concentrati principalmente nei cantoni dell’Erzegovina) e quelli bosgnacchi (nella Bosnia centrale e settentrionale), creando pero’ conflitti di competenza continui tra i livelli del governo, nonché veti e mercanteggiamenti continui tra le diverse forze politiche: per questo, alcuni ne chiedono l’eliminazione o il ridimensionamento. La seconda entità, la Republika Srpska, è priva di cantoni e con un governo centralizzato.
La diffusione della rivolta è stata impressionante. Si sono svolte manifestazioni in più di 30 città: un dato imponente, totalmente nuovo nella Bosnia post-1995. Va detto che non esiste alcun coordinamento né piattaforma né a livello locale, né tantomeno nazionale. L’unica eccezione è quella di Tuzla, dove è stato formulata una lista di richieste (tra cui: l’apertura di un’inchiesta e una revoca del processo di privatizzazione delle imprese, con la riassunzione degli operai; la riduzione degli stipendi dei politici; le dimissioni del governo cantonale – poi avvenute – sostituito da un ‘governo tecnico provvisorio’ fino alle elezioni del prossimo autunno). Le proteste nelle altre città sono state del tutto spontanee, amplificate da gruppi creati sui social network, senza momenti di riflessione collettiva, assemblee o forme organizzative. Gli unici punti comuni sono un generico attacco all’intera classe politica e uno spirito anti-nazionalista che resta pero’ da testare sul campo (ad esempio, a Mostar non è ancora del tutto chiaro se la composizione sia stata davvero unitaria; inoltre, in Republika Srpska le manifestazioni sono state in tono minore, a parte un presidio simbolico di solidarietà a Banja Luka). Importanti membri dell’intellettualità “civica” e non-nazionalista hanno dato, alla vigilia delle manifestazioni, il loro supporto: dal professore universitario (e storico attivista dei diritti civili) Zdravko Grebo, che ha auspicato una “primavera bosniaca”, al regista Danis Tanovic, al musicista Damir Imamovic. Ma non si è affermato nessun ‘volto’ né ‘leader’ della protesta. Che si è fatta violenta molto presto. Poco l’inizio dei presidi, infatti, alcuni manifestanti sono riusciti a introdursi nei palazzi del potere.
Diverse testimonianze affermano che, mentre la partecipazione ai cortei era del tutto trasversale, chi ha partecipato a scontri e danneggiamenti erano principalmente giovani o giovanissimi (tra i fermi, del resto, c’erano diversi minorenni), mentre il resto del corteo si spaccava: alcuni guardavano con indifferenza o anche con esplicito compiacimento, magari applaudendo gli scontri; altri si ritiravano indignati per la presunta degenerazione della protesta. La spaccatura è, come prevedibile, ancora più evidente il giorno dopo: tra chi lamenta che il ricorso alla violenza è una “sconfitta” per il movimento, e non intaccherà i poteri reali da combattere; e chi sottolinea che altro non si poteva aspettare che un’esplosione disincantata di questo tipo, in un paese che cova malgoverno, corruzione e emergenza economica da vent’anni. Quello che resta da vedere è se le proteste passeranno a formulare richieste più precise, con forme di riflessione ed elaborazione interna, oppure se rimarranno nella rivolta spontanea. In questo caso la auspicata “primavera bosniaca” resterebbe sotto un cielo di fumo nero.
Un altro grande interrogativo della giornata, con pesanti implicazioni politiche, è il ruolo delle forze di polizia. Molti a Sarajevo sono rimasti sorpresi dalla scarsa presenza e dal debole intervento all’inizio degli scontri e al momento dell’irruzione nei palazzi istituzionali. Quattro sedi cantonali su dieci sono cadute come birilli, e senza che a manifestare vi fossero moltitudini così incontenibili (a parte Tuzla, dove vi erano 10.000 persone in piazza). Ci sarà da chiedersi, tra gli addetti alla sicurezza, se questo default risponde a semplici fattori “tecnici”, come impreparazione e mancanza di coordinamento, oppure se qualcuno che siede ai vari livelli di governo aveva interesse a “lasciare succedere” ciò che è successo.
Di certo, come ricorda Rodolfo Toé, il politico che trarrà maggiore vantaggio dagli eventi di questi giorni è senz’altro Fahrudin Radončić, attuale Ministro della sicurezza (che però, va precisato, non controlla direttamente i reparti di polizia che sono di competenza cantonale) e padrone del quotidiano “Dnevni Avaz”. Radončić e’ l’ “uomo nuovo” della politica bosniaca, leader di un partito populista bosgnacco (l’ “Alleanza per il futuro Migliore della BiH) dato in costante ascesa e che si presenta come alternativo a SDP e SDA logorati da corruzione e lotte di potere interne, in vista delle elezioni del prossimo autunno. Non c’è da sorprendersi se ieri Radončić ha avuto parole di grande comprensione per le proteste, lasciando così la parte di “poliziotto cattivo” ai leaders di SDA e SDP, Bakir Izetbegović e Zlatko Lagumdžija, che avevano respinto le richieste di cambio nell’élite politica.
Continuano, però, a cadere teste almeno a livello cantonale: mentre scriviamo questo articolo giunge la notizia delle dimissioni di Suad Zeljković, premier del Cantone di Sarajevo e membro dell’SDA. Si noti che, appena poche ore fa, Zeljković, raggiunto telefonicamente dalla TV Hayat, aveva insultato pesantemente la giornalista che gli aveva chiesto se intendeva dimettersi. L’episodio aveva fatto il giro della rete, erigendo istantaneamente Zeljković a simbolo della classe politica disperatamente arroccata su se stessa. Il futuro delle proteste in Bosnia dipende anche da quale dei suoi due gesti odierni (l’insulto o le dimissioni) servirà da esempio ai suoi ex-colleghi.
Photo credit: klix.ba
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