di Filip Stefanović
Ripubblico su EaST Journal una testimonianza trasmessa qualche anno fa alla radio serba B92, che stesi e tradussi a suo tempo, nella sua forma originale. Non ricordo chi fosse a parlare, non lo segnai. Forse non è nemmeno così rilevante; una scheggia senza capo né coda, dolorosa, di chi c’era…
<<Una mattina usciamo, mia cognata ed io, per la serie non ci sono spari, c’era già stato un breve armistizio o qualcosa di simile, ed in più era una giornata di sole, quindi speravamo che la tregua sarebbe durata almeno tutta la mattina. Viene allora verso di noi una donna, con un elegante cappotto bianco, scarpe bianche col tacco, vestita così, ben curata, e sopra il cappotto indossava una scatola in cartone. Se ne va in giro così, cantando, ci incontra e ci dice: “Care mie, vi dico una cosa in confidenza, andate dove c’è solo la natura, solo nel verde, là dove sono le farfalle e gli uccelli…”. E capiamo che la donna è matta. Così, d’un tratto, la consapevolezza di questo, che è ammattita per la guerra – perché da come è vestita è chiaro che era una donna curata, che lavorava non so dove, in qualche banca, alla posta o che so, e che tutto funzionava fino alla guerra, e che è stata la guerra a rimbecillirla – suscita in te un tale brivido, la sensazione che non è una cosa che succede solo agli altri, che ci sei così vicino, per il continuo stress, la paura, il cibo cattivo, quella orrenda paura dell’inverno…
Mi sembra che già a settembre la paura dell’inverno a Sarajevo iniziasse ad essere peggiore della paura della morte. Lì si trafficava con tutti e con tutto: prima si trafficava con ciò che era stato rubato dai negozi, probabilmente ancora la gente ha di questa roba nascosta da qualche parte, e aspetta il momento giusto in cui la potrà esporre; per esempio Oslobodjenje titolava che avevano trovato quattro tonnellate di formaggio arrivato con gli aiuti umanitari… quattro tonnellate di formaggio!! Il tizio le aveva chiuse nel suo garage, o non so dove, le aveva sistemate da qualche parte. Si smerciava praticamente qualsiasi cosa, al mercato durante l’estate l’unica cosa che si poteva trovare – penso che l’abbiate visto in tv, che le immagini siano giunte fino a Belgrado – erano mucchietti di ortica nera, o foglie di barbabietola, erano l’alternativa agli spinaci, o in generale a qualsiasi verdura. Noi raccoglievamo i denti di leone attorno a casa: quando si mettono i denti di leone nel riso, il riso assume un altro colore, e il pranzo cambia persino un po’ sapore.
Ad esempio, una mia amica ed io volevamo andare un giorno alla croce rossa, io tentavo assiduamente di finire su quella lista per i convogli, e poiché erano distanze enormi, il trasporto pubblico non funzionava, tutti quei cavi per i quali passavano i filobus e i tram tagliati, e i tram divelti coi vetri rotti, erano sparsi un po’ per tutta la città, lungo i binari, a una distanza che so, di 200, 100 metri. E poi ci sono quei punti dove la strada si stende a tal punto che la visuale dai monti, da Vraca o Trebević è totale, e da quelle strade ci stanno tutti alla larga, perché lì stanno appostati i cecchini, e per quel motivo, perché comunque la gente possa da qualche parte passare, sono barricate con degli enormi container in ferro. Così arriviamo la mia collega e io – non so più se sto raccontando una storia di senso compiuto e se questa storia si riesca a seguire – passiamo vicino a questi container di ferro, e perché ci eravamo perse in chiacchiere, avremmo proseguito ancora qualche metro scoperte da questa protezione, anche se vedevamo che dietro questi container stava rannicchiata della gente, perlopiù anziana, e uno di questi ci dice: “Dove andate, donne? Ferme, ferme! Non vedete che il cecchino batte?!”, e allora sentiamo il colpo, vediamo proprio come il proiettile colpisca l’asfalto della strada, e ci ritiriamo. Poi si dirige verso di noi dall’altra parte della strada un signore anziano, un signore sulla settantina, probabilmente anche a lui hanno gridato “Ehi, non andare, vecchio, non andare!”, ma lui non ha sentito, e ora va. E allora il cecchino apre il fuoco, e proprio a fianco della sua scarpa il proiettile strappa un pezzo d’asfalto, e quel pezzo d’asfalto lo colpisce di rimbalzo sotto al mento, e lui per quanto vecchio si mette a correre, supera quel punto critico tenuto sotto tiro dal cecchino, e arriva da noi, e l’unica preoccupazione che ha, poveraccio, è di toccarsi quel punto del mento e gridare “Dov’è il sangue?! Dov’è il sangue?! Dov’è?!!”, perché pensa il proiettile gli abbia preso la mascella e cerca il sangue. Allora ovviamente passano diversi minuti prima che comprenda che è stato l’asfalto a colpirlo, e non il proiettile, ma mentre noi ci curiamo del vecchio dal nostro lato della strada, dall’altra parte arriva una donna giovane, forse sui 35, con un vestitino nero, sembra un’impiegata, di nuovo anche lei curata, si vede che era stata a lavoro, o qualcosa di simile, e di nuovo lo stesso tipo che aveva gridato a noi le dice “Ehi, dove sta andando? Il cecchino spara!”. Lei fa un gesto stanco con la mano, come per dire “Lo so, qui il cecchino spara sempre, ma io passo”, fa tre passi e il cecchino la colpisce al collo. Ora il sangue sprizza dalla ferita, noi ci troviamo al massimo a un metro e mezzo da lei, e nessuno osa avvicinarsi, per aiutarla, per tirarla fuori, e questa sensazione terribile, che tu non possa fare quei tre passi per tendere la mano a qualcuno a cui il sangue schizza dal collo e tirarlo fuori, è orribile a tale punto, sminuente per ogni sentimento di amore verso il prossimo, per quelle emozioni più basilari dell’uomo che si offrono non dico alle persone, anche solo ad un cane, è così terribile che tremo tutta, ma tutta, con tutto il corpo, non come quando tremano le spalle, o le mani, ma tutto il corpo come se fosse staccato da terra, e la mia collega urla a squarciagola, per la stessa ragione, né per paura, né perché a quella donna scorre il sangue, ma per quella sensazione, di non poterla aiutare. E allora un altro di quegli uomini schiacciati lì con noi le dice: “Per prima cosa pressi quel punto con la mano, lì dove sente che brucia, schiacci come sa e può per non perdere troppo sangue, e poi provi a puntellarsi, a spingersi coi piedi contro l’asfalto, per passare quel metro e mezzo da sola, perché noi non possiamo avvicinarci, perché allora anche per noi non ci sarà nessuno ad aiutarci”. E per tutto quel tempo il cecchino continua imperterrito a sparare, vicino a lei, o meglio sopra di lei, perché probabilmente non l’ha più nel suo campo visivo dettato dal mirino, ma sa di averla colpita, e continua a spaventare i restanti. E lei, poverina, in tutto quel tempo si spinge in qualche modo, non lo so, con le ultime forze, con la forza della disperazione, per istinto di sopravvivenza, e si avvicina sempre più, ma i vestiti le restano indietro, schiacciati, e non riusciamo ad afferrarla, allora gli uomini si tolgono le cinture, e le lanciano, cercano in qualche modo di agganciarla, aiutarla, e alla fine in qualche modo la tiriamo fuori. Nel frattempo un altro individuo dall’altra parte della strada, credo un poliziotto, col walkie-talkie ha già chiamato l’ambulanza, arriva l’ambulanza e la carica dentro, e noi per altre quattro ore piene restiamo lì, accuciati dietro quell’affare di ferro che si ostinano a chiamare container, non so perché ma anch’io l’ho ormai assimilato, sebbene non abbia nulla a che fare coi container, e per di più è ormai talmente sforacchiato dai colpi dei cecchini che stiamo tutti rannicchiati in basso, e ci sono anche persone anziane, e non è facile, e non sai che fare, in più pioveva, c’era fango, e non potevi nemmeno sederti, ed è tutto nel complesso così orribile, così… tutti stanno zitti, stanno così pazientemente lì rannicchiati, e non sono spaventati, ed è questo a fare più paura, semplicemente stanno lì, aspettano che passi qualcosa senza speranza, orribilmente privi di speranza. Semplicemente è questo, è questa la cosa più tragica della situazione.