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A Parigi gli Champs Elysées, a Roma i Fori Imperiali, a Berlino Unter den Linden, non vi è ragione al mondo per cui anche Libreville non abbia il suo bel viale di rappresentanza e infatti ce l'ha e si chiama nientepopodimeno che Boulevard Triomphal.
Inizia dal lungomare e dal Port Mole col Centro Culturale Francese e poi via via si susseguono, come anche nelle strade limitrofe, ministeri, banche, alcune ambasciate, il senato, l'assemblea nazionale, il Palazzo del Presidente, la grande Moschea, alberghi 5 stelle, tutte le sedi che "contano" insomma fino alla Cité de la Démocratie, un Centro Congressi con vari uffici fra cui l'Unesco.
Certo bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi perché i tombini non sono ancora all'altezza di quelli giapponesi, ma sono quisquilie e il traffico automobilistico denso e caotico è proprio da grande città (circa la metà della popolazione del Gabon vive qui) e poi ne ha fatta di strada Libreville dall'inizio '900 quando le case erano palafitte di legno per proteggersi dall'umidità e dalla bestie feroci. La città acquista importanza dopo la seconda guerra mondiale, quando cominciano ad affluire fondi, l'indipendenza dalla Francia nel 1960 e la nuova ricchezza concretizzatasi grazie allo sfruttamento del petrolio faranno il resto e gli anni 70 vedranno cambiare completamente il volto della città in direzione della modernità.
Molto piacevole per stranieri e gabonesi "bene" il centrale caffé Pélisson dal cognome di quel Charles-Antoine francese che in anni lontani per amore del pane e diventato re della panificazione in Gabon, come titola un vecchio articolo di giornale affisso all'interno.
Non a caso ho scritto "in direzione della modernità" perché anche nella capitale mancano ancora molte infrastrutture, contrasti e contraddizioni risaltano evidenti. Ne è un esempio sintomatico il bel liceo tutto dipinto di blu Léon Mba, dal nome del primo Presidente del Gabon indipendente, dove Francesco insegna nelle classi preparatorie post maturità ai giovani studenti che tenteranno i concorsi per entrare nelle Grandes Ecoles, in qualche modo le future élite culturali. Da una parte c'è una sofisticatissima lavagna luminosa che costa un patrimonio, ma dall'altra mancano le sedie per gli studenti che non so bene come si arrangino; la dice lunga anche il fatto che le classi elementari delle scuole primarie a Libreville sono composte da 80-100 bambini e sfido chiunque a fare una formazione di qualità con questi numeri.
Appena arrivata in Gabon quando ho mandato agli amici le prime foto del mio soggiorno ho ricevuto commenti entusiasti, ma avevo spedito quelle più belle; eppure tutte le foto sono vere, diversi frammenti di una realtà composita, lusso e povertà, costruzioni ultra moderne e capanne di legno e latta, uomini in doppio petto e altri col machete, spiagge caraibiche e spazzatura, ma il paradosso più vistoso è che il paese è ricco mentre la gente è povera e parlo naturalmente della maggioranza, non degli happy few.
Nella sua estensione grande due terzi dell'Italia fatta per 85% di foreste e natura incontaminata il Gabon possiede petrolio, manganese che lo rende secondo esportatore al mondo, uranio, oro, legno pregiato e solo un milione e mezzo di abitanti su quel 15% di territorio che rimane, di che farne un vero gioiello, un'isola felice per tutti. Dal punto di vista alimentare il Gabon non è autonomo, la pratica dell'allevamento è appena iniziata e la terra, fertilissima, (dicono che basta gettare un seme e cresce), è coltivata solo all'1,21 con il risultato che il paese importa 80% dei prodotti che consuma, il riso dall'Asia, frutta e verdura dal vicino Camerun e le carni dal Brasile e dall'Argentina.
Uomini che ancestralmente vivevano di caccia, pesca e "cueillette", allungare la mano che qualcosa dall'albero lo raccogli sempre, che nell'ultimo secolo si sono ritrovati ad essere manovalanza da schiavi e poi, finalmente liberi di un'indipendenza dalla Francia che non volevano, proprietari dell'improvvisa ricchezza che dà la scoperta del petrolio.
Alcuni economisti hanno parlato del fenomeno "Dutch desease", il rapporto cioè tra l'aumento delle risorse naturali e la diminuzione del settore manifatturiero; anche se il più delle volte si riferisce alla scoperta di risorse naturali, in senso più vasto la teoria della " malattia olandese" fa riferimento a qualsiasi improvviso sviluppo che si traduca in un notevole afflusso di valuta estera con un aumento dei prezzi delle risorse naturali, la necessità di assistenza straniera e investimenti esteri diretti.
Da ignorante in materia di economia comprendo che secondo questa teoria un'improvvisa ricchezza può anche essere nefasta per un paese se sovverte certi equilibri, se coglie impreparati, se non è convenientemente gestita, se più che portare benessere generale diventa fonte di speculazioni e corruzione. All'inaccettabile colonialismo del passato si sarebbe sostituito un neo-colonialismo economico in cui i partner internazionali sono invitati dai governi locali dei paesi stessi al pranzo di gala, grandi torte spartite male, ma in cui anche i paesi africani, nella loro gestione, hanno precise responsabilità.
In questa Africa ogni tanto spunta qualcuno che tenta di cambiare giochi e regole, di invertire la rotta, come ha tentato quel Thomas Sankara presidente del Burkina Faso dal 1983 al 1987 di cui ho visto un reportage poche sere fa alla televisione, ma scomodo per gli interessi di molti, è finito ad ingrossare le fila di quella lunga lista di morti ammazzati che volevano impegnarsi "diversamente" per il loro paese.
Sul settimanale "Jeune Afrique Magazine" del 23 dicembre 2012 ho trovato una sintesi molto esaustiva di Aadel Essaadani sulla situazione: "L'Afrique cherche, depuis toujours, un moyen pour raccrocher son wagon au train mondial du développement. Mais elle "s'obstine" à démeurer un concentré de pauvreté et d'inégalités, rendant les bilans d'étapes globalement insatisfaisants. Bien que les niveaux de développement de ses 55 pays soit inégaux, le constat global demeure celui d'un continent qui continue d'exporter ses ressources naturelles sans investir dans les moyens de les transformer à travers l'éducation, la recherche et des politiques publiques favorisant la créativité en tant qu'élément moteur de l'économie. L'Afrique reste un marché pour les créations des autres. Elle consomme et fournit au reste du monde la matière première de ce qu'elle (r)achète au prix fort."
In Gabon non ho visto bambini affetti da malnutrizione col ventre gonfio, al contrario, una gioventù stupenda, un paese pacifico fin dall'indipendenza e che non ha mai avuto guerre, un paese dove dagli stati vicini vengono in molti a lavorare perché passa per la Svizzera dell'Africa subsahariana, un paese dalle grandi potenzialità e bellissimo, valorizzato come merita lo sarebbe ancora di più. Mi sono portata a casa il ricordo di quelle passeggiate che ci facevamo al tramonto sulla spiaggia di Libreville con l'augurio e la speranza che i ragazzi continuino a farle.
Termino questi appunti di viaggio africani con un omaggio all'artista ghanese che vive in Nigeria El Anatsui, che ho avuto modo di ammirare in varie esposizioni in giro per il mondo. Coniugando tradizione africana con la modernità di tecniche e materiali, la sua opera è un esempio straordinario di creatività e inventiva: frammenti di legno, lattine di alluminio e multicolori tappi corona, solo scarti abbandonati, nelle sue mani si trasformano magicamente in preziosi arazzi, drappi d'oro e di colore da sogno.
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