Chi non vede più
connessioni, più alcuna traccia di un sistema, può ancora procedere solo per
episodi
G. Benn
Paul Bourget, sul finire del XIX secolo,
descrissela
transizione “stilistica” che dal tardo romanticismo francese alla modernità ha
interessato il progresso del “genere letterario”, e vede in quelle tendenze che
vanno via via plasmando la letteratura decadentista (quella di cui Nietzsche
ebbe a dire: “stili della decadenza: la
frase singola diventa sovrana, la subordinazione e coordinazione diventa
causale. Bourget”), il riflesso delle trasformazioni che stanno riguardando
l’intero corpus della società.
Per Bourget, sia la società che la
“lingua”, possono essere paragonate quindi ad un organismo. Per il francese si
ha così decadenza sociale quando “gli
organismi che compongono l’organismo totale cessano di subordinare la loro
energia all’energia totale e l’anarchia che si instaura costituisce la
decadenza dell’insieme”.
La realtà moderna descritta da Bourget
sembra quindi non avere più una solida e comune base morale sulla quale
poggiare, né un sistema di valori attraverso cui poter concepire un’interezza
generale. E’ tutto un inestricabile guazzabuglio, in cui l’uomo, non
riconoscendo più alcuna stella polare a cui tendere per darsi un senso; ormai
incapace di orientarsi, ché tutto si opacizza in un grigiore indistinto;
deprivato dalla transitorietà dei legami e dalla velocità con cui è chiamato a
vivere un’esistenza sempre più precaria e provvisoria, non riesce più ad
orientarsi e si perde così, irrimediabil-mente, in un’indifferente e
polverizzata realtà multiforme.
L’intero non è quindi più intero, ma si sfuma
inevitabilmente nel caleidoscopio di un’oggettività frantumata, parcellizzata,
fatta di frammenti e di collisioni, in cui l’uomo non è più uomo, libero,
bensì un prisma attraversato da molteplici chocs
che tuttavia non può fisiologicamente cogliere:la velocità e l’ipertrofia di esperienze lo hanno
reso impotente, incapace di coglierle per farle proprie. Per dirla col monito
di Nietzsche “la vita non dimora più
nella totalità”
Questo perché nel caotico brulicare
della vita moderna tutti i particolari acquistano una selvaggia autonomia e l’anarchia di atomi polverizza l’individuo
fluttuante e cedevole in una miriade di schegge, parcellizzandolo, di volta in
volta, in porzioni di sé scollegate tra loro, disgregato egli stesso nella sua
unità individuale.
Eppure quell’uomo che abitava in quella
modernità narrata da Paul Bourget, la medesima descritta sinteticamente dalla
lucidità di Baudelaire, ovvero il regno del “transitorio e del fuggitivo”, era almeno consapevole di vivere un
malessere e discuteva fervidamente sui possibili rimedi a quel “mal de siécle”, mentre oggi pare che ne
siamo invece completamente all’oscuro, o peggio, ce ne freghiamo bellamente.
L’uomo decadente della fine del XIX
secolo e il dècadent contemporaneo
che si aggira come uno spettro nel “postmoderno” “liquido” dei giorni nostri,
sono comunque imparentati dalle stesse caratteristiche morali e psicologiche. La
sostanziale differenza che contrassegna questi due simili topoi umani non sembra così essere legata alle loro caratteristiche
peculiari-morali. Sono invece mutate le condizioni “esterne” con cui il
“decadente 2.0” è chiamato a fare i conti: il progresso contemporaneo ha
enormemente dilatato ed accresciuto le possibilità di parcellizzazione
dell’individuo (non esistono più uomini, ma solo lavoratori, professionisti,
clienti, consumatori, ecc….).
Se il decadente, almeno dal punto di
vista morale, è infatti sempre un individuo “tenuto
ad essere una creatura priva di carattere” – per dirla con Dostoevskij -,
perché, come sapeva Strindberg, “egli non
diventa mai sé stesso, mai qualcosa a sé, mai un individuo compiuto”, oggi
le condizioni per alimentare il disorientamento degli uomini hanno raggiunto
vette sconosciute all’ancora “umana” società del XIX secolo.
Non è in fondo vero che quel male che
all’epoca di Bourget veniva avvertito come il sintomo di una malattia, è invece
diventato adesso qualcosa di assolutamente normale, abitudinario ed ordinario?
Anzi, quell’avere insieme “fame e colica”
e quell’estrogenarsi di esperienze che contraddistingueva l’umanità moderna
narrata da Bourget e da Nietzsche, sono oggi le condizioni indispensabili per
abitare “dignitosamente” la società globale post-moderna. Scegliere di non
scegliere (a parte la marca del telefonino o dell’auto nuova). Farsi tante
esperienze – senza viverne alcuna - fa curriculum – e poi meglio muoversi che
rimanere fermi! Il rimanere fisso in un punto potrebbe alimentare dubbi su ciò
che faccio per essere -. Comportarsi come puttane non è più considerato
vergognoso, ma anzi il necessario atteggiamento per riuscire, nella vita, ad
avere una posizione sociale migliore – e
soprattutto economica –. Essere un po’ di tutto, non avere legami stabili –
quelli fanno male, come ogni scelta mi impegnerebbero e farebbero nascere responsabilità
castranti la mia voglia di atomizzazione -. Essere “così e così”, mediocri,
sempre pronti a cambiare di pelle per salire comunque sul carro dei “vincenti”,
viene considerato come un valore, ché un valore, d’ora in poi, è solo quello
che dà un’utilità, una convenienza. (tuttavia viene il dubbio che
quell’individuo talvolta scelga: egli, per sopravvivere, vuole diventare un
essere anonimo. E desidera vivere alle dipendenze perché forse sa che rimanendo
solo non saprebbe più a che santo votarsi per trovare un senso, un ruolo
riconosciuto o un’utilità sociale).
Ad esempio, se meno filosoficamente si
volesse dare un occhio alla storia: l’industrialismo e la conseguente crescente
diversificazione dei beni, mescolatosi ad una crescente parcellizzazione delle
produzioni, hanno aumentato parallelamente la divisione del lavoro e, vien da
sé, più un lavoratore si specializza più si allontana da qualsiasi possibilità di
autosufficienza (può comprarsi tutto col denaro, in modo tale da dipenderne
totalmente). Non siamo più individui, siamo anzitutto divisibili (divide et impera!), scomponibili a
seconda dell’uso, polverizzati, ingranaggi di un tutto che non esiste più, se
non nelle forme subdole e virtuali del mercato globale (unico vero dominum ancora “identificato” democraticamente!):
intercambiabili ed indifferenti, come figurine anonime in balia delle
variazioni di mercato e degli umori della convenienza, siamo costretti a
muoverci velocissimamente – e senza senso – per mantenere in piedi quello stesso
meccanismo di umana decadenza.
Ma forse non tutta l’umanità è perduta,
e anzi questo relativismo imperante e questa nichilistica impossibilità di trovare
soggettivamente un ordine, potrebbero persino diventare un’imperdibile
occasione volitiva, se solo l’uomo volesse, finalmente, diventare autonomo e
indipendente.
Vorremmo credere che ci sia ancora
speranza per un regno degli uomini. E’ vero, sono già passati più di cent’anni
e non si vedono segnali positivi in tal senso, ma probabilmente la via
tracciata da Nietzsche contro quell’inarrestabile e febbricitante politeismo di
valori, può risultare “buona” anche per il social-decadente coevo.
Nietzsche, nella fattispecie, suggerisce
di cercare al proprio interno l’energia attraverso la quale organizzare questo
pulviscolo multiforme: farsi soggetto, nucleo polarizzante ogni centrifuga
spinta frantumatrice la centralità dell’io. Un po’ come Zarathustra stesso
sembra insegnare: egli è un campo di forze, una scena in cui passano e si
alternano molti personaggi e situazioni discordi, su sfondi continuamente
diversi e in movimento; quel “soggetto” non sarà solamente un cristallo
attraversato da raggi di luce, ma anche un caleidoscopio dove molti e
differenti cristalli, al minimo spostamento e alla più breve inclinazione,
formano molteplici configurazioni. Un sentire polimorfo in spontaneo ascolto polifonico,
una pluralità che forma il soggetto senza disgregarlo. Un soggetto che fa da
Tutto.
In questo caso non è l’”anarchia di
atomi” che, sostituendosi alla centralità del soggetto, finisce inevitabilmente
per distruggerlo in un’infinità di variabili sconnesse; è al contrario il
soggetto che opera su questo materiale eterogeneo e lo “trasvaluta” dando a
quell’ammasso informe ed indifferente – decadente - un’organizzazione a partire
dalla propria volontà di accordare le disarmonie riducendole al proprio essere
soggetto, singolo, “creatore di valori”, uomo. Quello stesso soggetto si fa in
questo modo volontà di potenza capace
di regolare la policromia moderna: il “collante” che attribuisce a ciò che è
molteplice un’interezza, un senso, un valore “soggettivo”.
In fondo, al di là delle retoriche e
delle astruse descrizioni, la questione è più semplice di quanto
l’inadeguatezza delle parole riesca a suggerire.
La genesi di un’impertinente
consapevolezza che piano piano si fa largo costringendoci a venire allo
scoperto per poi spingerci verso un luogo privilegiato, di vedetta, e da qui
trovare infine la voglia di stabilirsi in quel punto senza lasciarci più
ammaliare dalle lusinghe e dai richiami di una realtà indifferente: sé stessi