Boyhood di Richard Linklater è uno dei più grandi e belli esperimenti della storia del cinema. Girato in soli 39 giorni, racconta un arco di tempo lungo 12 anni (dal 2002 al 2013). Ma non è il classico film che salta nel tempo nel giro di un taglio di montaggio, Boyhood il tempo lo vive, lo attraversa, lo filma spalmando su oltre un decennio una semplice ma strepitosa sceneggiatura che registra la storia di un’ordinaria famiglia americana, con le sue gioie, i suoi dolori, i suoi cambiamenti, che sono quelli di migliaia di famiglie americane, e un po’ anche della nostra.
Non una storia vera, non un documentario, ma un film nel pieno senso della parola, scritto a tavolino, rimaneggiato anno dopo anno in base ai cambiamenti della Storia e della Società, per raccontarci però la vita, quella vera, quella reale. Ogni anno Linklater ha dedicato circa tre giorni per girare una sequenza o poco più, riunendo i suoi attori e vedendoli cresciuti, invecchiati. Il tempo passa, non c’è trucco e non c’è inganno, né controfigura o cambio d’attore. Con Boyhood il cinema non è mai stato così vicino alla vita.
Un film strepitoso che però non si dota di toni epici, né patriottici, né moralistici. Boyhood è un film d’apparente banalità a livello di plot, ma di grande sostanza nel modo in cui si esprime sul grande schermo. Un prodotto d’invidiabile omogeneità e freschezza, dove lo sguardo di Linklater rimane miracolosamente immutato negli anni, così come lo stile registico e il ritmo (che non fa affatto pesare le oltre 2 ore e mezza di film). In quei dodici anni c’è tutta la crescita di un bambino che si fa adolescente e tutta l’America di oggi e di ieri (il passaggio da Bush a Obama, il porto d’armi, i problemi d’alcolismo, il bullismo nelle scuole, la caccia al terrorismo, ecc.) .
Boyhood colpisce per la sua genuinità, la sua forza è la semplicità, la purezza di sguardo con cui fa sembrare stra-ordinario l’ordinario. Si ride, ci si spaventa, si entra in empatia con i personaggi, si sperimenta il brivido della vita tramite lo schermo. E Linklater si dimostra così perfetto e geniale da chiudere il suo film nell’attimo giusto, cogliendo o lasciandosi cogliere da quel carpe diem di cui parlano i due ragazzi on screen, con quel mezzo sguardo in macchina di Mason (il protagonista) che tradisce e ribadisce come sia cinema, e non la vita vera, quella che abbiamo visto. Ma ne siamo davvero sicuri?
Anche per questo Boyhood è un vero capolavoro, uno dei film più importanti mai realizzati in oltre un secolo di settima arte.
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