Boys don't cry - 2
Da Carlo Deffenu
BOYS DON'T CRY (seconda parte) Il giorno successivo lo passai tra il letto e il telefono. Non mi ero lavato e neanche rasato. Avevo mangiato poco e niente, finito le scorte di birra in frigorifero e nella dispensa. Parlato con tutti e nessuno.Mi chiamò mia madre dalla casa al mare. Aveva saputo la notizia dalla madre di Flavio. Io confermai in modo brusco, evitando di scendere in particolari, che tra l’altro non conoscevo. Le ipotesi si moltiplicavano. Cancro, leucemia fulminante, un blocco intestinale, una crisi cardiaca, un ictus…io ascoltavo le voci di tutte le persone che mi chiamavano e annuivo senza aggiungere una parola di più. Mi cercarono diversi amici. Declinai tutti gli inviti: non mi andava di parlare e di vedere nessuno.Finii per addormentarmi stremato dalla stanchezza. Il tempo si allungò perdendo forma, senso e importanza. Sudai, mi agitai, parlai nel sonno, rovesciai il bicchiere d’acqua lasciato sul comodino, colpii con il braccio la sveglia, spaccandola in mille pezzi, mi contorsi tra i legacci delle lenzuola, e se mi svegliai dal torpore alcolico fu soltanto grazie a un profumo che dolcemente entrò in me, conquistandosi spazio con la tenacia che solo le cose buone possono avere. Aprii gli occhi pensando di galleggiare ancora tra il sonno e la veglia: seduta sul letto mi apparve mia nonna Gavina. Aspettava in silenzio che i miei occhi si aprissero, tenendomi per mano.«Hai fatto un bella confusione!»«Nonna... sei tu?»«E chi dovrei essere? La Regina Elisabetta?»«Ma cosa ci fai qui? Come sei arrivata? C’è la mamma con te?»«Ti ho portato una cosa.»«Che cosa?»Mi alzai a sedere sul letto e la guardai mentre si girava verso la scrivania, prendeva un piatto coperto da un telo, tornava a sedersi al mio fianco, e mi porgeva il piatto.«Questo è per te.»Allungai la mano e presi il piatto senza sapere bene cosa fare. «Guarda cosa c’è sotto. Non sei curioso?»Sollevai il telo bianco e scoprii una tortino di zucchine, con la crosta di formaggio e pangrattato leggermente bruciacchiata. Il profumo che arrivò alle narici mi commosse e mi strizzò le ultime lacrime dagli occhi devastati. Non capivo cosa stesse succedendo. Mi limitavo a sbattere le palpebre e a tirare su con il naso. Nonna Gavina capì il momento d’imbarazzo e dopo avermi sfilato il piatto dalle mani tremanti, mi abbracciò forte e aspettò paziente che le nubi nere passassero. Partì prima dell’ora di cena in macchina con mia madre senza chiedermi le ragioni della scomparsa prematura del mio amico. Mio padre si limitò a bighellonare per casa con lo zaino in mano, cercando tutto quello che poteva tornargli utile, osservandomi di nascosto con una faccia indecifrabile, convinto che non mi accorgessi degli sguardi che mi lanciava appena giravo le spalle. Come sempre capitava tra di noi non ci furono parole che riuscirono a esprimere il suo cordoglio e il mio dolore per la perdita. Mi disse soltanto che partiva anche lui per qualche giorno di mare. «Tua madre mi aspetta» precisò, come se non capissi che era il suo modo discreto per lasciarmi tranquillo. Annuii con poca convinzione, mentre fissavo lo schermo della tv, seduto sulla poltrona della taverna dove solitamente sedeva nonna Gavina. Anche mia madre non parlò molto. Guardandomi con i suoi occhi truccati pesantemente e il casco di capelli gonfi sulla testa, si limitò a domandarmi se avessi sentito la madre di Alfonso, mentre s’infilava la giacca di lino davanti allo specchio dell’ingresso. Mi voltai per rispondere che non avevo chiamato nessuno e guardandola sentii il bisogno di stringerla forte. Mi avvicinai assecondando il desiderio, senza aspettare un gesto di conforto da parte sua. Dritta come una statua, sul portone di casa, si lasciò andare alla stretta e tornò per un attimo una madre, sussurrandomi “povero ragazzo”. Non capii a chi si riferisse, se a me o ad Alfonso, ma lasciai perdere e non chiesi più di quello che mi era stato concesso. La guardai scendere le scale tenendo sottobraccio nonna Gavina e provai per lei un affetto dolce e malinconico. Eravamo sempre stati vicini, eppure lontanissimi, come pianeti separati da distanze siderali. Mi sentivo solo e disperato in piedi su quel pianerottolo. Avrei voluto gridare qualcosa di diverso per fermarla, qualcosa di diverso da tutto quello che si era sempre aspettata di sentire dalla mia voce. Trattenerla un secondo con una parola sincera, ecco cosa avrei dovuto fare, ma non riuscii a fermare il nastro che scorreva troppo veloce per la mia capacità di reazione e tutto scivolò via senza che rimanesse alcuna traccia della mia fragile intenzione. Rimasto solo nella grande casa silenziosa scesi in taverna. Per un po’ finsi di guardare una replica della Signora in giallo. C’era un morto dentro una cella frigo: era il proprietario di un ristorante che aveva invitato Jessica Fletcher per l’inaugurazione del suo locale. Il tempo di salutarla, scambiare due chiacchiere, offrirle un drink ed ecco che il grande chef veniva ritrovato cadavere nella cella frigo. Ho sempre pensato che laSignora in giallo porti una sfiga incredibile. Alla fine del telefilm mi buttai su un programma musicale che proponeva video degli anni ’80 – Wham, Prince, Madonna, Eurythimcs, Culure Club - alzai il volume e cominciai a ballare e cantare le canzoni più famose. Terminata la carrellata musicale, finii con il telecomando su una televendita di coltelli da cucina e ci rimasi impigliato come una mosca in una ragnatela. Affascinato dai colori, le luci e la voce tonante del venditore, ascoltavo tutto quello che mi veniva raccontato.«Potete tagliare, signore mie, il formaggio con un coltello da carne? Nooooo…che non potete! E potete, signore mie, tagliare una pagnotta fragrante con il coltello da pesce? Noooooo…che non potete! E allora chiamate al numero in sovraimpressione per aggiudicarvi il nostro meraviglioso lotto…» Mi assopii ascoltando la voce dell’imbonitore televisivo che mi consigliava il modo più semplice per affilare le lame e mi svegliai di soprassalto quando squillò il telefono di casa. Mi alzai dalla poltrona, spensi il televisore, ignorai il telefono e mi infilai sotto la doccia. Puzzavo di sudore e la barba mi irritava la pelle. Il sollievo che provai sotto il getto d’acqua mi liberò dal peso che mi schiacciava il cervello. Mi sedetti sul piatto della doccia, rannicchiando le gambe contro il petto, e lasciai che l’acqua precipitasse su di me. (continua...)
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