Il Brasile fosse solo per la sua immensità ha certamente molto più da raccontare che un semplice evento o contesto. Se è facile lasciarsene stregare, è altrettanto difficile sottrarsi alla voglia di viaggiare e scoprire. Evadere è sempre nelle intenzioni del viaggiatore. Il turista riporta a casa l’altrove mentre il viaggiatore si porta da un altrove all’altro.
In Brasile si esce da casa presto se si può e si va alla fermata dell’autobus senza sognare di sapere quando passa. L’unica certezza è dove si trova la fermata. L’autobus? Arriva se arriva. Si aspetta e basta. Per gli autobus urbani che qui vengono chiamati “omnibus” i passeggeri salgono dalla porta posteriore e dietro pagamento del titolo di viaggio il controllore gli apre il passaggio girello per dargli accesso ai posto a sedere se ne trovano. Solo le categorie protette (donne incinte, bambini, mutilati, invalidi e anziani) salgono dalla porta anteriore e sono esenti da pagamento. Di tanto in tanto, tra due fermate e senza troppe spiegazioni i venditori ambulanti godono degli stessi privilegi. Il conducente solitamente li saluta e non apre le porte centrali che se nel contempo si crea traffico con i passeggeri intenti a scendere. Dall’autostazione, partono i pullman extraurbani per chi ha impegni o chi vuol concedersi una gita fuoriporta.
All’autostazione di Salvador de Bahia prendo uno dei caratteristici pullman extraurbani dei paesi tropicali non senza lasciarmi impressionare dalla miriade di persone che vanno e vengono e di cui si fatica a capire se sanno dove sono dirette. Ognuno si occupa di riconoscere il suo pullman secondo la propria destinazione ben fortunati che una certa organizzazione preveda una zona d’imbarco accuratamente delimitata alla quale si accede convalidando il ticket precedentemente comprato in biglietteria. Meglio di certi paesi avanzati. Lascio la costa per l’interno dello stato di Bahia, lasciandomi affascinare dalla civilizzazione e le natura selvaggia che si alternano in una intesa disciplinata ma fuorviante per chi è abituato a più continuità.
In me rimbomba il richiamo della savana che mi conforta poiché vi ritrovo un po’ di casa mia nei dintorni di N’Gaoundéré nell’Adamaoua in Camerun quando come qui i pullman s’inoltrano nella natura sull’unica piattaforma di modernità che è il catrame, cosa che non impedisce che il viaggio sia altalenante e cadenzato dall’irregolarità della strada a tratti dissestata già di per sé insufficiente a giudicare dal traffico e le dimensioni. In più delle numerose fermate che fa il pullman all’entrata dei paesini lungo il tragitto per far scendere dei passeggeri o farne salire altri in modo più o meno abusivo, fa abbastanza impressione vedere nel mezzo del nulla il conducente, un gigante di 2 metri in armonia con la stazza fisica monumentale fermare il bus e dirigersi verso il fondo per rimettersi in pace con le sue funzioni fisiologiche. Più avanti, si capisce che qui non usano fare scendere i passeggeri per sgranchirsi le arti, fare uno spuntino e rimettersi in condizione di viaggiare. Si fa l’opposto. All’ingresso di un paese la cui attività economica à tributaria dei viaggianti, sono i venditori ambulanti ad entrare e proporre la loro merce, il tempo ragionevole prima di ripartire. Selvaggina, frutti, arachidi, maïs, medicinali, carta igienica, fazzoletti ecc… Nel frattempo il rastaman seduto all’ultima fila non ha smesso dal momento della partenza di condividere a tutto volume la sua compilation di Reggae. Il viaggio è uno spettacolo umano che parla di democrazia a suo modo.
L’unico inghippo di rilevanza è che tanta allegria può nascondere la leggerezza di non darsi delle regole o prendere delle precauzioni. Infatti, mentre ci siamo fatti risucchiare dalla notte, un odore di bruciato entra dai finestrini costantemente rimasti aperti da quali la pioggia tropicale di cui è stagione è già entrata a bagnarci ad intermittenza.
Il motore del nostro pullman emette talmente tanto fumo che sembra abbia preso fuoco. La sosta è inevitabile. In questi casi, l’ultima cosa cui ci si potrebbe aspettare è che tutta la compagnia riparta senza che nessuno sia sceso fosse solo per sincerarsi del guasto. Invece è proprio quello che succede. Per non pensarci troppo, mi sporgo dalla finestra pregando che arriviamo sani e salvi. Ho l’impressione di vedere il bestiame (asini, muli, cavalli, mucche) che segnalano la vicina campagna divertirsi di vedermi così allucinato. Sono nel loro elemento e devono aver visto questo ed altro. D’altronde, seguitano nelle loro attività con una calma riconfortante. Se non fosse stato per l’abbondanza della natura che giustifica il loro aspetto massiccio, avrei trovato eccessivi i carichi che alcune di queste bestiole trasportavano.
Fu così lemme lemme, che il motore singhiozzante, il pullman terminò la sua corsa sulla terra bautta, segno che l’asfalto ci aveva congedato senza salutarci. Siamo in autostazione e poiché il pullman tende a svuotarsi, capisco che il nostro rocambolesco viaggio di 3 ore durato quasi 7 colpevoli anche i mezzi pesanti che per l’intero percorso hanno conteso le corsie troppo contenute dell’autostrada è finito.
Siamo a Serinha, una città a metà rurale di quasi 100.000 abitanti nel ventre del Brasile. Città di grandezza piccola-media da queste parti. Nel chiasso d’un finimondo di taxi che suonano in continuazione, riusciamo a interpolarne un abusivo per conto nostro. L’autista non senza mercanteggiare per farsi dare più soldi possibili ci accompagna, i bambini, i miei amici ed io fino a sotto il tetto della loro infanzia dove la mamma già a letto non li aspettava. Nessuno poteva chiamare e avvisarla. Siamo lontani dalle comodità della modernità delle grandi città, nella periferia della piccola città, un paese in effetti. L’aria me lo comunica e i sensi apprezzano. Nelle case umili tutto può mancare tranne il calore umano e il genio delle pentole per accogliere il visitatore. Un pasto fugace e siamo a letto senza nessuna preoccupazione di ripulirci dai segni del viaggio. Ammucchiati come potevamo, ogni poltrona venne trasformata in letto. Unica accortezza, una zanzariera per ripararci dai padroni alati della notte.
Il mattino seguente, sono i bambini di cui ignoriamo se hanno dormito nella stessa casetta talmente sono numerosi che ci svegliano al suono di « O trem… O trem… », il treno, il treno… L’imponente mezzo meccanico invia segnali del suo avvicinamento trasformando tutta la casa in un oggetto fremente, cosa che scatena l’euforia rara degli abitanti, grandi come piccoli che si scagliano dietro la casa per vedere da vicino l’enorme bruco metallico spaccare il boschetto e passare tanto vicino da dare l’impressione di imbarcarli al di là delle loro fantasie. Siamo in piedi e la vita comincia in questa fattoria dove innumerevoli gabbie offrono rifugio a uccelli di ogni genere, a volte catturati usando una fionda, pollame, galli da combattimento che non perdono tempo per darvi dimostrazione del loro coraggio affrontando i cani solitamente più affidabili come guardiani domestici. Il coinvolgimento nelle attività mattutine non si fa attendere. Ci viene dato un secchio per andare a prendere l’acqua nell’orto dove crescono papaia, maïs, legumi, guaiva e manghi indicandoci i bagni per la doccia. Come porta una stoffa dalla lunghezza avara completata da un buco nel mezzo, segno del tempo che non lascia dubbi su cosa fate se vi trovate all’interno. Il meglio è di avvisare il resto della casa ogni volta che vi ritirate in bagno sicché nessuno vi si avventuri mentre ci soggiornate.
Tutto l’imbarazzo si scioglie quando con le vostre mani prendete dalla bacinella quell’acqua che trova la via del vostro corpo dopo che con un secchio l’avete sottratta alla cisterna gigantesca che giustamente ne contiene assai visto il clima e la stagione piovosa.
Senza sfidare il freddo, avete la scelta anche dell’acqua riscaldata che mischierete con il dono freddo della pioggia. Che godimento la doccia rustica ! finalmente, dopo che ognuno abbia ritrovato la sua roba in mezzo al caos e si sia preparato, noi abbiamo diritto a una colazione che altrove è un festino. Del pane locale, della farina di tapioca, derivato di manioca, del latte in polvere, l’mancabile caffè fatto in maniera rustica ma rapida su un forno alimentato con una bomboletta di gas, della frutta, ancora della frutta, carne e uova… Il conto sarebbe salato in un ristorante per un’ora che prevede sopratutto del dolce a tavola. Ti chiedono di non preoccuparti troppo dei bambini perché hanno mangiato e mangeranno ancora. Sono abituati. Quelli arrivati con noi si sono confusi a quelli della casa. Uno di loro sta male e è rimasto a letto. Ha la febbre alta. Una pasticca di quelle che la profilassi per malaria, febbre gialla e denghe, spauracchio degli stranieri ci consiglia di portare sempre in viaggio lo aiuterà a rimettersi presto in piedi. Un po’ d’acqua in un contenitore di yogurt non consumato durante il viaggio per pulirci i denti e noi altri possiamo uscire a fare conoscenza con la città dove arriviamo dopo 10 minuti di camminata e altrettanto d’autobus. Questa volta il passeggero entra, si siede ed è un’assistente del conducente che passa, raccoglie i soldi, mentre distribuisce dei ticket à mo di titoli di trasporto che le verranno restituiti alla fine.
Serinha la borgata portoghese dalle numerose chiese caratteristiche e la tipica folla rumorosa nei pittoreschi mercati rionali è più tranquilla. So di essere osservato e penso dapprima che ciò sia dovuto al fatto che la popolazione qui è meno africanizzata. Non è così. Nonostante la sfida annunciata per la stessa sera e le stangate rimediate nelle prime due partite dei mondiali mi ostino ad andare in giro con la maglia del Camerun ed è possibile che in questi luoghi nessuno dei miei connazionali mi abbia mai preceduto. Nonché non ci possa essere in questa parte del Brasile nessuno che discenderebbe delle mie radici etniche che affondano in Camerun e altrove nell’Africa. Tutto è evidentemente possibile e a dire la verità durante le mie peregrinazioni nelle Americhe, questo pensiero non mi ha mai abbandonato. Questa volta parlando di Camerunensi escludo quanti dal mio gruppo etnico originario sono stati trasferiti qui con la forza durante la brutalità della migrazione forzata chiamata schiavitù. Il Camerun non esisteva ancora in quanto tale e il Brasile nemmeno ma l’attività principale praticata dall’uomo bianco in Africa Nera era la caccia all’Uomo. Oggi ripercorrendo le rotte dell’orrore transatlantico si sa con certezza che uomini, donne e bambini sono stati trasferiti in Brasile provenienti da popolazioni stanziate nell’attuale Camerun. Del resto, I primi Europei a visitare e penetrare le coste dell’attuale Camerun sono gli stessi Diego Cao e Vasco Da Gamma che hanno lasciate tracce molto forti in Brasile. Mi è capitato talmente spesso di imbattermi in persone dall’apparenza familiare che non mi stupisco che qui prima di sentirmi parlare nessuno sia preparato al fatto che possa essere straniero.
Anch’io ho la curiosità sveglia e il mi senso dell’osservazione non manca di notare queste persone perlopiù eleganti, le donne dagli ampi e lunghi vestiti adornati di perle dorate e dai tratti fisici diversi. Sono le popolazioni che qui identificano come « Ciganos », Tzigani di cui si pensa che provengano dall’Europa Orientale dove discendono dai Gitani e più lontano ancora, dall’India. Nel mosaico di etnie che è il Brasile, se sono così identificabili è che si aprono poco alla mescolanza biologica o culturale. Non per questo la mia conversazione con loro non è stata gradevole. Anzi, ci siamo scambiati gli auguri per la partita. Abbiamo anche il tempo di prelevare soldi in banca e ho potuto costatare che i distributori automatici in ogni istituto bancario qui sono più numerosi che in Europa. Una lunga fila si forma davanti ogni sportello fai-da-té Mi rendo conto anche di quanto i Brasiliani siano ataccati alla Loro Nazionale di Calcio. Dovunque andiamo, nei Negozi come nei supermercati il personale ha come divisa la maglia della Seleçao. Giustamente poche ore dopo il programma prevedeva Brasile-Camerun. Prima di rientrare ad attavolarmi con gli altri per il pranzo, ho la gradevole sorpresa dell’onesta della piccola città. Giunti a casa, la signora che ci accompagnava non trova il suo telefono cellulare e capisce che è caduto nell’autobus. Senza ragionare, divorando la pista fangosa e sfidando la pioggia che dissuaderebbe i più temerari a uscire in sandali infradito, siamo di nuovo alla fermata dell’autobus dove l’assistenza del conducente ci vede e ci rassicura dicendo di aver già ridato l’aggeggio a qualcuno della casa una fermata prima, ciò che verifichiamo immediatamente. Questo è il vantaggio della campagna dove tutti si conoscono e chissà, forse è proprio a cavallo che da lì che torneremo a Salvador per la Festa dell’Indipendenza il 2 luglio.