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Brasile: un futuro da scegliere

Creato il 24 novembre 2011 da Eurasia @eurasiarivista

Brasile :::: Stefano Pistore :::: 24 novembre, 2011 ::::  Brasile: un futuro da scegliere

Il biennio 2010/2011, ancora in fase di conclusione, ha rappresentato per lo Stato brasiliano un vero e proprio punto di non ritorno. Un biennio in cui oltre a consolidare la propria politica interna, senza risentire eccessivamente del passaggio Lula-Rousseff, l’attore brasiliano è stato capace di confermare, nonché di incrementare, il suo ruolo di protagonista all’interno dello scenario mondiale. A determinare questa evoluzione, tutta una serie di eventi che hanno definitivamente indicato il Brasile come un possibile leader futuro in grado di mutare gli assetti di un eventuale nuovo ordine internazionale.

 

Padrone del proprio destino

 

L’evento simbolo di questi ultimi due anni che senza ombra di dubbio merita il primo premio nella categoria “affari esteri” ,è l’ormai noto accordo concluso con Iran e Turchia riguardo la famigerata questione nucleare iraniana.
Non è nostra intenzione concentrarci sui dettagli dell’intesa (già ampiamente descritti in altre sedi da altrettanti analisti), e guardiamo piuttosto, senza avere pretese di verità assoluta, a quelle che sono state le conseguenze in ambito internazionale di tali decisioni.
Innanzitutto, e non occorre un esperto di geopolitica per dirlo, l’accordo ha dimostrato, sempre se fosse ancora necessario, l’ennesima prova di debolezza/impotenza di Washington in uno scacchiere in cui sempre più pedine finiscono col trasformarsi in regine. Inoltre, vedendo quanto è accaduto e tutt’ora accade nel vicino e medio oriente sembra che gli avvenimenti non siano del tutto scollegati fra loro. Se poi si analizzano le varie reazioni di numerose capitali sudamericane, Brasilia inclusa, riguardo la situazione libica, quella in Siria, quella in Bahrein e via dicendo, ecco che i processi decisionali della Casa Bianca risultano essere molto più chiari, così come risulta essere chiara la direzione che il Brasile ed altre potenze hanno deciso di intraprendere.
L’ennesima prova di forza per dimostrare di essere ancora in grado di controllare le sorti del globo? Forse. Fatto sta che l’area in questione è stata abbondantemente destabilizzata, e la NATO (Stati Uniti d’America) si è assicurata nuovi punti strategici in grado di contrastare l’azione di Teheran e dei suoi alleati.

In secondo luogo, con l’accordo Brasile-Iran-Turchia si è ulteriormente rafforzato quel legame storico che la regione sudamericana stringe con i popoli dell’Africa e dell’Oriente (Cina inclusa).

Il sostegno alla Repubblica Islamica dell’allora presidente brasiliano Lula, seppur come mediatore, ha senz’altro incentivato tutti quei Paesi cosiddetti “non-allineati” ad affacciarsi con maggiore sicurezza verso le coste del Sud del continente americano.

Infine, ovvero, il risultato ovvio di quanto detto finora, con la mediazione esercitata il Brasile ha notevolmente contribuito a bilanciare quel tanto amato “equilibrio di potenza” nell’ordine internazionale.

Emerich De Vattel definiva l’equilibrio di potenza come “una disposizione delle cose, mediante la quale veruna potenza non trovasi in istato di predominare assolutamente e d’impor la legge ad altrui”¹. Definizione che rispecchia a pieno l’azione di politica estera di Brasilia. Cambiare le carte in tavola, questo è l’intento. Creare un ordine internazionale complesso che sia veramente tale, dove a prendere le decisioni non siano sempre i soliti noti capaci di decidere le sorti della maggioranza. Questo l’obiettivo di Lula prima, e della Rousseff ora. Un obiettivo di possibile realizzazione. Il percorso intrapreso sulla questione iraniana ne è un chiaro esempio.
La controfirma a quanto appena detto è stata posta qualche settimana fa con agli accordi presi dal Governo Rousseff in ambito di tecnologia militare, accordi che rientrano all’interno del “Programma di Sviluppo dei Sottomarini” (PROSUB). Dopo le intese raggiunte con la Francia durante la presidenza Lula per la realizzazione di quattro sottomarini convenzionali ed uno nucleare è stato da poco raggiunto un nuovo accordo grazie al quale entro il 2048 verranno fabbricati ben sei sottomarini nucleari e diciannove sottomarini convenzionali.

Con l’innovazione della tecnologia nucleare brasiliana, il Paese rientra definitivamente in quella stretta cerchia di Stati in grado di produrre sottomarini nucleari. Ad affiancarlo solo USA, Russia, Francia, Inghilterra e Cina².
Inutile aggiungere che anche in questo caso, l’avanzamento tecnologico nucleare raggiunto dal Brasile non fa altro che migliorare proprio quell’equilibrio di potenza poc’anzi citato. Ossia la mutua deterrenza nucleare³ come veniva definita da Hedley Bull.

Il pieno controllo di alcune risorse energetiche come quella nucleare, ma non solo, è da ritenersi necessario per garantire un vero multipolarismo fra gli Stati; sviluppare l’energia nucleare è inoltre necessario anche per non lasciare il monopolio nelle mani di Washington.

È pacifico che se il Brasile ha deciso di agire in un determinato modo non è solo per raggiungere un maggiore equilibrio di potenza ma ovviamente anche per un proprio interesse personale, tuttavia, al momento sembra essere un comportamento diverso da quello delle passate amministrazioni USA, un comportamento che mira prima di tutto a voler fornire un vero e proprio nuovo modello di riferimento che si distacchi da quello “occidentale” e funga da luce di speranza anche per tutti gli altri Paesi che credono che proprio quel modello “occidentale” non sia più un esempio da seguire.

Questa pazza economia⁴

 

Il ruolo innovatore dello Stato brasiliano sotto il profilo politico non può dirsi altrettanto tale sotto quello economico. Aspetti che sono strettamente correlati fra di loro e che un eventuale malfunzionamento, anche di uno solo dei due, avrebbe senza alcun dubbio compromesso l’ascesa del Brasile.
Il perché della prima affermazione sarà spiegato più avanti.
Gli accordi presi durante il governo Lula ed ora quelli presi dal suo successore politico sono molteplici, difficili da quantificare, sia all’interno della regione sudamericana sia ovviamente all’esterno. Così come sono numerose le adesioni da parte dello stesso Brasile ai vari organismi di integrazione regionale (MERCOSUR su tutti) e interregionale (BRICS su tutti) in grado di stimolare e supportare uno sviluppo economico dentro e fuori l’area sudamericana.

I risultati ottenuti in campo economico fino ad oggi sono frutto di un lungo lavoro che vede innanzitutto lo Stato brasiliano raggiungere una posizione di primato nei confronti degli altri Paesi dell’America Indiolatina. Un’egemonia economica, quella brasiliana, condivisa per molto tempo con lo Stato argentino ma che durante i mandati di Lula ha raggiunto un definitivo status dominante.

Tutto ha un prezzo però, così, se da un lato il potere economico dello Stato sudamericano ha aiutato e continua ad aiutare la regione Indiolatina a liberarsi dall’oppressione filo-imperialista della Casa Bianca, dall’altro lato ha imposto e continua ad imporre importanti decisioni per tutti i suoi vicini di casa.

Ma seguiamo un ordine logico.

Le realtà economiche che agiscono all’interno (ma anche all’esterno) della regione sudamericana sono essenzialmente rappresentate da due grandi blocchi. Da una parte quello formato dal “North American Free Trade Agreement” (NAFTA) e dalla “Free Trade Area of the Americas” (FTAA), dall’altra il blocco costituito dagli organismi regionali del “Mercado Común del Sur” (MERCOSUR), dalla “Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América – Tratado de Comercio de los Pueblos” ( ALBA-TCP) e dalla “Comunidad Andina Nacional” (CAN). Entrambi i blocchi hanno come punto di riferimento altri due organismi regionali che sono rispettivamente la “Oraganization of American States” (OAS), con a capo gli Stati Uniti, e la “Unión de Naciones Suramericanas” (UNASUR), in cui a primeggiare è proprio il Brasile.

Il tutto rischia, dunque, di trasformarsi in un unico scontro bipolare in cui gli interessi e le esigenze degli altri Paesi (salvo quelli in grado di risolvere autonomamente i proprio bisogni) rischiano di passare brutalmente in secondo piano.

Quello che infatti sta pian piano prendendo corpo all’interno del Sudamerica, e qui si motiva l’affermazione iniziale, è un meccanismo alquanto perverso e fuorviante da quella che dovrebbe essere una vera integrazione regionale.

Per liberarsi dall’influenza degli Stati Uniti si rischia di rimanere soggiogati da un altro attore, il Brasile appunto, che invece di cooperare, in molti casi, intraprende in materia economica processi decisionali in completa autonomia, senza preoccuparsi di quello che dovrebbe essere un vero spirito integrativo e dimenticando spesso che la base solida della svolta politica dell’America Indiolatina di questi ultimi anni è stata dettata a suon di consensi popolari. E che consensi! Se l’elettorato ne risente, se il cittadino medio vede peggiorare le proprie condizioni a costo di un’integrazione fasulla, la stessa operazione di distacco da Washington non andrà a buon fine.

A sottolineare questo atteggiamento pseudo imperialista del Palácio do Planalto è in primo luogo l’avanzo delle sue grandi imprese multinazionali, specializzate nel recupero di risorse naturali, e in particolar modo il loro disinteresse pressoché totale verso le necessità del popolo brasiliano.
Processo (il recupero di risorse naturali) che copre tutta la filiera produttiva, dall’estrazione all’immissione sul mercato regionale ed extra regionale. Gruppi come Petrobras, Vale, Votorantim e Odebrecht hanno il controllo in settori quali quello energetico, petrolifero, minerario, etc. non solo all’interno del Brasile ma anche nell’intera area sudamericana, e in alcuni casi, come nel caso Petrobras, sono riconosciuti nei rispettivi settori come dei veri leader mondiali.

La Petrobras, secondo fonti della PFC Energy, risultava a fine 2010 la terza compagnia energetica al mondo, così come la Vale risulta essere il maggiore esportatore di ferro su scala globale, rappresentando la seconda compagnia mineraria al mondo. La Odebrecht a sua volta controlla la Braskem, ossia, la compagnia petrolchimica più grande di tutto il Sudamerica, quinta nel ranking mondiale per grandezza e diciassettesima per fatturato.

A rendere possibile tutto ciò due grandi protagonisti: uno politico e uno finanziario.

Quello politico è rappresentato da una costola dell’UNASUR, ossia, dalla “Iniziativa per l’Integrazione dell’Infrastruttura Regionale Sudamericana” (IIRSA). Come obiettivo principale la pianificazione e lo sviluppo di progetti per il miglioramento delle infrastrutture regionali di trasporto, energia e telecomunicazioni.

Oltre a poter contare sul sostegno economico del “Banco Interamericano de Desarollo” (BID), della Corporación Andina de Fomento (CAF) e del “Fondo Financiario para el Desarollo de la Cuenca del Plata” (FONPLATA), l’IIRSA si avvale dell’altro protagonista, quello finanziario.

Si parla del “Banco Nacional de Desarollo Económico y Social” (BNDES), ovvero, la maggiore banca brasiliana di finanziamento di tutta l’America Indiolatina, nonché la più grande banca di sviluppo dell’intero pianeta. È proprio grazie al BNDES, banca collegata direttamente al Ministero brasiliano dello sviluppo dell’industria e del commercio estero che l’IIRSA finanzia i suoi progetti di infrastruttura. La stessa banca che permette i maggiori flussi di capitale brasiliano all’estero.

Come già anticipato però, l’azione economica brasiliana non converte il lavoro dei brasiliani (così come quello dei loro vicini, dato che il Brasile controlla una percentuale importante delle principali fonti di ricchezza degli altri Paesi della regione: basti pensare agli idrocarburi in Bolivia, all’allevamento e alla pastorizia in Uruguay, all’energia proveniente dalla diga di Itaipù in Paraguay, alle miniere in Perù, ma anche ad importanti settori dell’industria argentina, oggi assorbiti da grandi imprese brasiliane) in vantaggi concreti per il loro vivere quotidiano.

Per lo meno così dimostrano alcuni fatti.

Il Brasile è attualmente uno dei principali esportatori di carne bovina al mondo, tuttavia centinaia di migliaia di brasiliani soffrono di malnutrizione. Circa il 75% dei guadagni delle maggiori ditte di costruzione brasiliane provengono da progetti realizzati fuori dai confini nazionali, in cui sono incluse le stesse opere proposte dall’IIRSA, allo stesso tempo il sistema di trasporto delle grandi metropoli offre ancora un servizio di scarsa qualità. Il programma di buoni “Bolso Familia”, adottato dal governo nell’ambito della sua politica sociale e finalizzato alla riduzione della povertà risulta essere tutt’ora poco efficiente a lungo termine, dal momento che se da una parte agisce con azioni concrete (i buoni alle famiglie) combattendo dunque gli effetti della povertà, dall’altra ignora quelle che sono le cause della povertà stessa, risolvendo il problema solo temporaneamente.

 

Amazzonia mon amour

 

Prima di tirare qualche conclusione analizziamo molto brevemente un ultimo aspetto, un aspetto squisitamente geopolitico.

Storicamente, in Brasile, nonostante alcuni esempi fossero già comparsi in precedenza, un vero e proprio dibattito geopolitico si ha a partire dagli anni ’50, grazie sopratutto alle teorie formulate dal generale Golbery do Conto e Silva. Il fulcro del lavori, in quel caso, si focalizzò sull’enorme area geografica dell’Amazzonia, regione in cui era ancora incerta una reale sovranità da parte dello Stato brasiliano.

Il controllo dell’Amazzonia è ancora oggi una delle principali priorità in termini di sicurezza ma anche ovviamente in termini di guadagno, data l’abbondanza di risorse naturali presenti nel territorio. L’enorme area (più di sette milioni di km²) è per circa il 65% territorio brasiliano, un’altra importante percentuale è condivisa dal Perù, mentre il rimanente è diviso tra Colombia, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Guayana, Suriname e Guayana francese.

Controllo che a quanto p

are non è di sola priorità brasiliana; interessante a riguardo, l’analisi proposta qualche tempo fa dallo scrittore argentino Atilio Boron

Secondo lo scrittore, in occasione dell’ultima visita di Obama in Brasile, dove da una parte iniziavano i bombardamenti in Libia e dall’altra lo staff della Casa Bianca tentava di chiudere affari con la nuova amministrazione Rousseff, l’obiettivo che con l’incontro bilaterale si cercava di raggiungere, era un possibile avanzamento all’interno della regione brasiliana, mirando proprio alla sproporzionata distesa amazzonica. Il tutto camuffato da accordi puramente economici che permetterebbero a Washington di posizionarsi definitivamente in suolo brasiliano e collocare così nuovi punti di controllo nella regione sudamericana, poco importa che poi questi punti siano mascherati da piattaforme petrolifere.

Sempre secondo Boron, il controllo dell’Amazzonia permetterebbe di concentrarsi sul secondo obiettivo della Casa Bianca: ostacolare quella coordinazione economica e politica espressa, come già sottolineato in precedenza, dal triangolo MERCOSUR-ALBA-CAN, senza dimenticare la funzione di collante svolta dall’UNASUR, così determinante da far naufragare la FTAA e da contrastare le cospirazioni golpiste e secessioniste in Bolivia (2008) ed Ecuador (2010).

lo scrittore argentino evidenzia come la presenza in Brasile dello Stato nordamericano andrebbe a completare un quadro già ben definito, in cui, con l’Amazzonia come ipotetico centro, si collocano a Nord-Ovest le basi USA in Colombia, ad Ovest le basi in Perù, ad Est la base congiunta con la Francia in Guayana francese e a Sud le basi situate in Paraguay.

 

Conclusioni

 

Il Brasile ha ottenuto in questi anni risultati invidiabili, sia all’interno del proprio Stato che nelle relazioni politico-economiche con l’esterno. Un Paese che uscito, come d’altronde gran parte dell’America Indiolatina, da un lungo periodo di violenta dittatura è stato in grado di rilanciare la sua immagine di attore internazionale sotto ogni tipo di ambito.

L’epoca Lula ha consolidato definitivamente questa rinascita portando il Paese all’interno di quel circolo di Stati capaci di cambiare realmente le sorti dell’ordine internazionale.

Dal suo canto, la Rousseff non sembra voler arretrare sulle tendenze raggiunte con la passata presidenza, ne tantomeno sembra voler abbandonare uno degli obiettivi principali auspicati da Brasilia: emancipare lo Stato brasiliano dalla potenza statunitense, in modo da potere creare quel modello di cui si parlava precedentemente. Per questa ragione, pur di non concedere ulteriori spazi a Washington all’interno della regione sudamericana (vedi appunto l’Amazzonia), l’amministrazione Rousseff potrebbe decidere di continuare a preferire gli accordi con Pechino, tanto in ambito energetico quanto in quello nucleare (tra l’altro gli USA di Obama rischiano di perdere, dopo l’elezione di Humala in Perù, un altro importante tassello strategico nella regione; ma questa è un’altra storia).

Restando in chiave di rapporti esteri, la sfida futura sarà proprio quella di rinforzare tutti quegli organismi interregionali, BRICS in primis, in grado di offrire una vera alternativa al modello “occidentale”. A tal proposito il ruolo del Brasile è stato fino a questo punto determinante, soprattutto da un punto di vista politico.

Rendere il BRICS, oltre ad una grande opportunità economica, anche un reale soggetto politico?

Può darsi, anche se gli interessi personali di Cina e Russia potrebbero scontrarsi in più di qualche occasione con gli interessi collegiali del gruppo dei cinque.

Infine, la tanto discussa economia. Lo Stato brasiliano, economicamente parlando, ha reso molto al suo Paese, così come all’intera regione sudamericana. Tuttavia, prima di arrivare a situazioni poco vantaggiose per entrambi (il Paese e la regione), occorre raggiungere un maggiore equilibrio riguardo quelli che sono gli assetti interni al Brasile, ma anche riguardo gli assetti interni alla regione stessa.

Nel primo caso, il governo Rousseff dovrà cercare di fornire risposte più efficienti sull’eterna questione della povertà; allo stesso tempo dovrà cercare di ottimizzare il lavoro delle numerose multinazionali brasiliane anche verso lo stesso Brasile. È giusto investire all’estero ma sarebbe un controsenso se per lavori interni non si possa fare affidamento sulle proprie stesse industrie.

Nel secondo caso si hanno due problemi da risolvere nell’immediato.

Il primo problema si chiama MERCOSUR, dove il peso degli altri Stati, salvo in parte l’Argentina, è praticamente l’equivalente di un peso piuma. Ovvio che essendo una potenza maggiore, il Brasile abbia anche un peso diverso da un Uruguay, tanto per fare un esempio. Il dislivello raggiunto però è diventato troppo evidente ed ecco perché in molti casi si preferisce l’azione di ALBA piuttosto che quella del Mercato Comune.
Il secondo problema ha invece una valenza che va oltre le singole responsabilità del Brasile ma riguarda lo scontro fra il gruppo NAFTA e la triade già nominata MERCOSUR-ALBA-CAN. Problema che almeno per ora sembra non essere di troppo conto.
Forse questa è la prima volta nella storia dell’America Indiolatina che la maggioranza dei suoi Paesi e dei suoi popoli sono convinti fino in fondo di potersi emancipare totalmente dall’ombra sempre presente di Washington e della sua amministrazione di turno.

 

*Stefano Pistore (Università dell’Aquila, contribuisce frequentemente al sito di “Eurasia”)

 

1. E. de Vettel, Il diritto delle genti, ovvero Principi della legge naturale applicati alla condotta e agli affari delle nazioni e dei sovrani, Tipografia Fratelli Masi e Comp., Bologna 1804-1805, Libro III, cap 3, sez. 47, p. 33.
2. Per approfondire leggere
“Un momento estratégico para Sudamérica”, Raúl Zibechi, La Jornada.
3. Hedley Bull,
La Società Anarchica. L’ordine nella politica mondiale, Vita e Pensiero, Milano 2006, cap. 5, pp. 137-148.
4. Cfr. Mathias Luce, “
El subimperialismo brasileño en bolivia y américa latina”.
5. Per approfondire leggere
“Histoire de la géopolitique”, Pascal Lorot, Economica 1995.
6. Atilio A. Boron,
“¡Es la Amazonía, estúpido!”

 


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