Vi sono due forze in campo. La prima è quella di poche persone che contano molto e perciò "possono" anche molto. Sono le élite europeiste. Si incontrano e decidono al di fuori delle istituzioni democratiche, in consessi privati. La maggior parte di loro non sono stati eletti da nessuno, se non dai loro conti in banca, e anche quelli eletti non hanno comunque nessun mandato costituzionale a dibattere quelle che saranno le future leggi al di fuori delle sedi preposte, ovvero i parlamenti nazionali. Costoro hanno deciso che debbono a tutti i costi nascere gli Stati Uniti d’Europa, e che nessuno potrà frapporsi tra il loro proposito e la realizzazione di ciò che ritengono una missione. Neppure i popoli, che sono i proprietari legittimi delle terre che compongono il vecchio continente.
Fra loro c’è chi lo fa perché ne trarrebbe benefici economici, come per esempio le imprese americane che dall’integrazione europea conseguirebbero un vantaggio materiale (parole di Monti). E’ il caso della commissione Trilaterale, il cui responsabile europeo (fino a pochi mesi fa lo stesso Monti) è devotamente dedicato (committed) all’unificazione politica europea. Altri, invece, sono preoccupati dal peso crescente delle economie che compongono il terzo polo politico mondiale: il continente asiatico, dall’India alla Cina, cui potrebbe aggiungersi in corsa la Russia, senza dimenticare il sudamerica con il Brasile ma anche la spinta islamica. Questa corrente di pensiero ritiene che solo un’Europa unita, alleata con gli Stati Uniti d’America, possa fronteggiare l’aggressione commerciale (e all’occorrenza anche militare) del resto del mondo. Curioso come in queste fila si annoverino molti neoliberisti, i quali notoriamente sostengono che lo Stato sia cattivo e debba ingerirsi il meno possibile delle faccende che riguardano soldi e mercati, salvo poi ingerirsi loro degli stati fino ad arrivare al punto di scioglierli. Infine, tra le componenti della prima forza in campo vi è certamente anche la schiera dei signori del mondo, le cui fortune vengono incrementate al ritmo di 4 o 5 miliardi di dollari l’anno (parliamo di redditi personali), come ad esempio i gestori americani di certi Hedge Fund (in piena crisi, i redditi dei primi 25 gestori di «hedge» al mondo sono saliti del 68% nel 2007 sul 2006 a un totale di 20,7 miliardi.), che vedono come un intralcio ai loro affari la frammentazione politica e culturale dell’attuale assetto geopolitico del mondo. Queste élite si incontrano alle riunioni del gruppo Bilderberg, nei consigli della Commissione Trilaterale, nei think-tank nazionali e sovranazionali, dall’Aspen Institute a Bruegel e via discorrendo, nei quali spesso si intrecciano gli stessi nomi e tra i quali si annoverano politici interessati più al potere che a dare rappresentanza ai cittadini del mondo che li hanno eletti.
La seconda forza, numericamente travolgente ma priva di mezzi economici, di strumenti per organizzarsi, di competenze, di visione complessiva e di conoscenze adeguate, sono i popoli, l’oggetto passivo della manipolazione dei primi. I popoli vivono nel continuo affaccendamento che deriva loro dalla necessità di procurarsi il quotidiano sostentamento, attività frenetica e spossante che non consente loro di acquisire consapevolezza su ciò che si muove al di sopra delle loro teste. Anche se virtualmente vi sono risorse per tutti gli abitanti della Terra, la strategia politica e le leggi del mercato fanno sì che esse vengano distribuite solo in cambio di quantità continue di sacrifici costanti, che nessun benessere illusorio o disponibilità reale potrà rendere meno impellenti o diminuire in intensità (è il caso delle arance prodotto in eccesso che, anziché venire distribuite a chi ne ha bisogno, vengono portate al macero). Un livello di istruzione basso e sopratutto uno strumento di propaganda di massa ipnotico rendono possibile il contenimento della consapevolezza rispetto ai diritti acquisiti nel passato, poiché condizione necessaria alla loro rivendicazione efficace è l’avere maturato quella coscienza civica e nutrito quella dignità personale necessarie a generare la definizione di un obiettivo e ad alimentare l’impeto per raggiungerlo. Non fu casuale la scelta di eliminare l’educazione civica dai programmi scolastici, inutile e fastidioso strumento di rivendicazione identitaria: nessuno combatte una battaglia per la libertà se non sa neppure che esiste qualcosa, là fuori. Quel qualcosa là fuori si chiama sovranità, che non sta ad indicare l’ottusa difesa di principi obsoleti dal forte sapore individualistico, ma il grado di autonomia e indipendenza conquistate nel sangue che realizzano il primo comandamento naturale: l’autodeterminazione, cioè il diritto acquisito alla nascita a decidere per se stessi.
Così, in questo tiro alla fune, accade che i popoli tengano un capo della corda in mano ma non la tirino davvero. Piuttosto, oppongono una naturale resistenza inerziale al suo spostamento. La fune resiste perché loro pesano, tutto qui. Per la squadra dei club elitari, tirare brutalmente contro una tale massa immobile non sortirebbe alcun effetto, perché il topolino non può spostare la montagna. E del resto se l’elefante si accorgesse che qualcuno lo tira, potrebbe dare un improvviso strattone e liberarsi dei parassiti, come fanno i cavalli con le mosche quando le frustano con la coda (anche se poi ritornano). La soluzione, per gli europeisti, consiste nel fare allentare provvisoriamente la presa alle mandrie di buoi. Li si distrae, li si impaurisce, magari sfruttando profittevoli fenomeni congiunturali, e nella baraonda che viene a determinarsi (immaginate una manciata di sassolini lasciati cadere su una colonna ordinata di formiche), si afferra la corda incustodita e la si tira di nascosto. Solo qualche centimetro, che tanto nessuno ci farà caso. Ad ogni diversivo (ogni sassata) la fune si sposta un po’ di più in direzione dell’altra sponda del fiume, sul quale la corda è tesa, e quando i popoli recuperano l’attenzione necessaria a riprenderla in mano, si trovano in una posizione diversa, più avanzata rispetto a quella che occupavano prima. Si trovano cioè con i piedi via via sempre più nell’acqua, finchè non finiranno direttamente al centro del guado. L’ultimo strattone può essere quello definitivo: si recupera la corda e tanti saluti.
Diceva esattamente questo, Mario Monti, in una lezione tenuta all’Università Internazionale degli Studi Sociali Luiss Guido Carli risalente al febbraio 2011: "Nei momenti di crisi più acuta, progressi più sensibili. Rientro dell’emergenza della crisi: affievolimento della volontà di cooperare. Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, e di gravi crisi per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti di sovranità nazionali a un livello comunitario. E’ chiaro che il potere politico ma anche il senso di appartenenza dei cittadini alla collettività nazionale possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle perché c’è una crisi in atto, visibile, conclamata. Abbiamo bisogno delle crisi, come il G20, come gli altri consessi internazionali, per fare passi avanti. Ma quando una crisi sparisce, rimane un sedimento, perché si sono messe in opera istituzioni, leggi eccetera, per cui non è pienamente reversibile".
E’ opinione comune tra tutti i commentatori economici che la crisi europea poteva essere risolta all’inizio, intervenendo a sostegno della Grecia con costi marginali rispetto a quelli attuali, ma non sarebbe servito a creare le condizioni necessarie affinchè i popoli fossero pronti a "cessioni di parti di sovranità nazionali a un livello comunitario", ovvero allo scioglimento delle sovranità in favore della creazione di un super Stato più facilmente governabile e controllabile. Il fiscal compact; il pareggio di bilancio; i vari trattati che restringono sempre di più gli ambiti di incidenza delle politiche nazionali sull’autogoverno, come il MES, dal quale una volta ratificato nessun governo, neppure quelli successivi, potrà recedere; la creazione di una superforza di sicurezza internazionale la cui giurisdizione sovrasta quella di ogni altra forza dell’ordine, e cui i singoli stati non possono opporsi, come l’Eurogendfor; la sottrazione del potere di battere moneta producendo occupazione in favore di una banca centrale che non ha mandato a mantenere stabile l’occupazione, né a garantire i prestiti ma solo a contenere l’inflazione, sottraendo ricchezza che potrebbe più efficacemente circolare e ossigenare le economie; la creazione di una autorità bancaria europea dopo la crisi indotta dall’EBA sulle banche italiane, greche e spagnole, che ha portato le economie del sud europa a non avere liquidità per competere sui mercati; la vendita di massicce quantità di titoli di stato, come ha fatto Deutsche Bank (uno dei cosiddetti specialisti del debito che hanno la nostra autorizzazione per trattare ingenti quantità di emissioni del nostro Tesoro) con i BTP, aprendo la stagione della dittatura degli spread, con la conseguente esplosione dei tassi di interesse che i paesi sono costretti a pagare per rifinanziare il loro debito e il consequenziale simultaneo rovesciamento del governo greco e di quello italiano, sostituito dai colonnelli delle élite europeiste; la minaccia di una nuova stagione di conflitti armati paventata da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, e poi ripresa costantemente dai commentatori di certi quotidiani, con sempre maggiore insistenza; il conferimento totale e incondizionato da parte del Parlamento italiano a Mario Monti per il rafforzamento del processo di integrazione politica europea, con l’approvazione unanime di mozioni europeiste approvate nell’assordante silenzio non solo del dibattito pubblico, ma perfino delle cronache politiche della stampa e della televisione; il continuo e periodico riaccentuarsi della crisi quando è necessario compiere ulteriori passi avanti, seguito dalle dichiarazioni sempre più insistenti circa l’improcrastinabile necessità di integrarsi politicamente in maniera più stringente e definitiva; i referendum sull’Europa negati, o persi ma fatti ripetere: tutto concorre a svelare un quadro di inesorabilità che dipingono un processo di svuotamento progressivo dei parlamenti nazionali, ridotti al ruolo di amministrazioni locali, e di conferimenti continui di sovranità verso un centro di potere unico, dove l’assenza della partecipazione dei cittadini, dovuta all’estraneità e alla lontananza percepita e all’assenza di un reale ed efficace meccanismo di rappresentanza, consente di controllare e conseguire al meglio le strategie delle élite, allontanando nel contempo sempre di più il dibattito politico sulle questioni che contano dall’interesse dei popoli, in ossequio a quanto stabilito dallo studio "Crisis of Democracy", pubblicato 40 anni fa dalla Commissione Trilaterale (l’organizzazione di cui Monti è stato ai vertici per lunghi anni), il quale sosteneva che le uniche democrazie possibili sono quelle dove la maggior parte della popolazione si disinteressa delle questioni politiche, restando letteralmente in apnea. Una strategia che passa anche per la fotografia scattata oggi da Ernesto Galli Della Loggia, nel suo editoriale sul Corriere della Sera:
« L’assenza di figure di capi politici è tra i sintomi più evidenti dell’affievolimento-crisi della sfera politica europea come effetto della perdita di sovranità da parte degli Stati. Quando, infatti, una parte sempre maggiore delle cose che più contano, e che prima erano nelle mani della politica e perciò degli elettori, vengono invece a essere determinate ora dalla globalizzazione o dai mercati finanziari, ovvero decise dalle burocrazie «unioniste» di Bruxelles, o comunque sottoposte al placet di istanze collettive («vertici» vari, G8, G20 o quello che siano) — e sempre più o meno supinamente accettate dai governi — allora è inevitabile che la politica nazionale perda insieme al senso di sé anche ogni capacità di affermarsi per ciò che da sempre essa è: vale a dire l’ambito elettivo del comando pubblico e di coloro che lo esercitano. E dove c’è ben poco da decidere, è difficile che vi sia qualcuno realmente capace di comandare. »
Dove non vi è capacità di comando, regnano sottomissione e servitù. Resta da definire se il piano di creazione degli Stati Uniti d’Europa, complice il totale disinteresse dei popoli europei, riuscirà a compiersi appieno, oppure se rigurgiti di dignità e di affermazione delle identità nazionali, come potrebbe avvenire in Grecia e come sembrano fare capolino in Francia, in Olanda, in Irlanda, talvolta in Spagna, ma non ancora in Italia, sapranno rivendicare il diritto di autodeterminazione e porranno finalmente la questione in un ambito di discussione pubblica, dove le élite europeiste avrebbero dovuto porla fin dall’inizio anzichè limitarla ai loro consessi extra-parlamentari per tentare poi di conseguirla alle spalle dei popoli.
Finchè il meccanismo di rappresentanza democratica si troverà in questo limbo, nel quale la politica nazionale non conta più nulla e quella sovranazionale è fuori dal controllo popolare (basti pensare che il potere legislativo è in mano a un organo, la Commissione Europea, composta da un delegato per stato membro, sottratto ad un esplicito mandato elettorale, al quale per di più è richiesta la massima indipendenza dal governo nazionale che lo ha indicato), vivremo una stagione di sudditanza effettiva nella quale sarà possibile ogni forma di alienazione dei diritti e delle proprietà comuni, una sorta di medioevo istituzionale involutivo e pericoloso, dal quale potrà rinascere, forse, un nuovo risorgimento, oppure una stagione di infinito ed eterno dolore.
Nel dubbio, un energico strattone alla corda io lo darei.