“Il séguito, in lingua inglese sequel (…), indica, nel linguaggio cinematografico e della letteratura, un’opera che presenta dei personaggi e/o degli eventi cronologicamente posteriori a quelli già apparsi in un precedente episodio.”
Wikipedia docet. Oggi parliamo di un sequel. Come sappiamo sono terribilmente difficili da realizzare. I Fantastici 4 e Silver Surfer faceva schifo. L’Esorcista 2 faceva abbastanza schifo ma non come I Fantastici 4 e Silver Surfer. Un sequel a caso di Non Aprite Quella Porta è pura mmmerda ma mai quanto I Fantastici 4 e Silver Surfer. Specialmente il numero 4. Grazie Matthew McConauguehayiey o come cazzo ti chiami.
Insomma, se già i sequel sono difficili da realizzare causa il tentativo di rimanere all’altezza del predecessore, superandone, voglia permettendo, la qualità, realizzare un sequel di un sequel di un film considerato parte della storia del Cinema e diretto da un certo Hitchcock non è semplice subito. Se poi mettiamo tutta la baracca in mano all’attore protagonista con zero, dico zero, esperienze precedenti in campo registico, siamo a posto. Aggiungendo, per ultima cosa ma non meno importante, gli interi anni ’80 nei quali assistiamo a una valanga di tentativi di serializzazioni dei film di cui il 99% è cacca. Ma se gli elementi per vedere l’ennesimo seguito trash osceno degno solo ad un direct-to-video ci sono tutti, assistiamo ad un vero colpo di scena quando veniamo contraddetti. Oggi parliamo di Psycho III. Ma andiamo per gradi.
Facciamo un sequel decente, dicevano. Lo facciamo in 3D, dicevano.
Correva l’anno 1982. Robert Bloch pubblica Psycho II. La Universal, con una mossa magistrale, decide di sbattersene altamente e, quindi, mette in cantiere un sequel di Psycho con la trama che, però, si distacca da quella del libro. La pre-produzione parte col botto: si parla di Jamie Lee Curtis come protagonista femminile e di Christopher Walken nel ruolo di Norman Bates, dopo il rifiuto di Anthony Perkins di riprendere il suo personaggio. Ma Jamie Lee Curtis non è scema e della sua partecipazione non se ne fa nulla mentre mister Perkins, fiutando la crisi di copioni che attraversava causa una carriera segnata e sempre legata al suo ruolo nel primo Psycho, decide di ritornare nei panni di Norman Bates. La pellicola riceve persino la benedizione della figlia di Hitchcock dichiarando che “suo padre l’avrebbe amato”. Ma per fortuna della figlia di Hitchcock, suo padre muore prima. Il film esce nel 1983 e fa abbastanza cagare ma incassa bene: la Universal decide di serializzare il tutto e di partire con Psycho III.
E’ il 1986 e Psycho III esce nelle sale. Diretto dallo stesso Anthony Perkins, sembra di trovarsi davanti ad un episodio di un telefilm qualsiasi nel quale il confine tra attore, autore e regista diventa piuttosto confuso. Nessuno sembra dargli due lire al povero Anthony, il quale ci mette dell’impegno e, anche se non premiato dal botteghino, ci regala un buon thriller a tinte horror con espliciti richiami allo slasher movie tanto in voga negli anni ’80.
La trama. Subito dopo il twist finale di Psycho II in cui (SPOILER) si scopre che la madre di Norman non è la madre naturale, inizia questo terzo capitolo. Maureen, una suora in mezzo ad una crisi mistica scappa da un convento e incappa in Duane, un ragazzaccio con brusche maniere. La suora-non-troppo-convinta sfugge al ragazzo e finisce al motel di Norman Bates nel quale scopre che Duane, arrivato prima di lei, ci lavora part-time. Maureen conoscerà Norman, la quale gli farà tornare a galla i sentimenti provati per Marion Crane, e scatterà l’amore. Ma in città arriva una giornalista ficcanaso che è determinata a rinchiudere in prigione Norman per buttarne la chiave.
Anthony Perkins era carico. Era la sua prima regia. Aveva le idee. Voleva dimostrare che ci sapeva fare. E, sinceramente, non realizza un brutto film. Il problema è che c’erano continuamente problemi. Voleva girare tutto in bianco e nero per omaggiare il film originale di Hitchcock, la Universal gli dice di no. L’attore che intepreta Duane si rifiuta di fare una scena di nudo totale e Anthony si trova a dover fargli usare due lampade in una posizione totalmente innaturale e illogica per coprirgli le grazie. La sceneggiatura era totalmente differente ma viene cambiata per “privilegiare” la serializzazione riducendo il tutto all’ennesimo film in cui Norman uccide gente a caso, Norman fugge imbarazzato da gente a caso e Norman parla con la madre morta quando non uccide o fugge imbarazzato da gente a caso. Per di più, al povero Anthony viene diagnosticato di essere HIV positivo durante le riprese. Santa miseria, Anthony, che casotto.
Lampade al Motel Bates.
Oggi anche come copri-genitali.
Ma, nonostante tutte le previsioni contrarie, il povero Anthony riesce a realizzare un buonissimo thriller/slasher superiore ad un House of The End of the Street a caso. Riesce ad introdurre il tema religioso in una saga che ormai sembrava relegata a colpetti di scena circa la struttura famigliare di Norman, cosa che è degna di nota. Certo, non dico che questa tematica viene approfondita e sfruttata al meglio, anzi, ma ho trovato la prima battuta del film (“There is no God!”), anche se considerabile abbastanza didascalica, di grande efficacia grazie alla pronuncia “gridata” priva di commento musicale nel sottofondo.
Continuando con una semplice analisi tecnica si può vedere che c’è una certa ricerca dell’illuminazione in tutti gli ambienti. Colorazione della luce che spesso sfocia nella scala cromatica del rosso. Detto questo, non so se era la mia copia che, essendo così vecchia, sembrava regalare tonalità di rosso in alcune sequenze tipo quelle ambientate nel finale con la lotta tra Norman e Duane. Inoltre spesso assistiamo ad una impostazione dell’illuminazione molto teatrale nella quale si mettono in risalto i volti, marcandone la pericolosità come nel caso di Norman che spesso viene colpito da una luce posta sotto di se alla “racconti del terrore al campeggio con l’aiuto di una torcia per fare le facce brutte”. Quindi cosa dire se non bravo Anthony? Ma non è finita qui.
Faccia brutta.
No, non è finita qui. Perchè, dopo una quarantina di minuti iniziali in cui si ha l’impressione, tranne qualche guizzo, di trovarsi davanti all’ennesimo filmetto noioso, il film ingrana la quinta e parte con una buona dose di tensione e di colpi di scena. La tensione e i momenti in cui si ha l’impressione che possa accadere qualcosa da un momento all’altro sono parecchi e funzionano. Quasi tutti nella mezz’ora finale.
Poi, ovviamente, ci sono le cose che proprio non vanno. E, a prima vista, sono almeno tre:
- La scena della ghiacciaia. Una ragazza è scomparsa e la polizia va da Norman, e quindi al suo motel, per fargli delle domande. Il ragazzo è nervoso e continua a dire che non sa dove la si potrebbe trovare. E’ caldo, siamo in piena estate e, durante una conversazione tra polizia, Norman, la giornalista ficcanaso, Duane e Maureen, un poliziotto mette la mano in una ghiacciaia esterna al motel per mettersi dei cubetti in bocca con lo scopo di rinfrescarsi. Scopriamo che la ragazza scomparsa, uccisa da Norman, è stata nascosta lì. E lo scopriamo perchè c’è la sua cazzo di mano che spunta e i cubetti sono sporchi di sangue! I personaggi del film sono tutti lì e nessuno riesce a vedere nulla. Il poliziotto si mette in bocca dei cubetti di ghiaccio insanguinati e non sente nulla di strano. Che sia il segreto per dei buoni cocktail?
Ghiaccio al Motel Bates. Oggi con Aperol.
- La scena della morte sul water. Una scena imbarazzante per introdurre la ragazza che verrà poi uccisa mentre fa pipì: Maureen, dopo un appuntamento con Norman, si addormenta nella sua stanza del motel. Una ragazza qualsiasi entra nella camera dell’ex suora e la sveglia solo per dirle che aveva la porta aperta e che l’avrebbe chiusa lei. Eh, però voleva avvisarla. Giusto. Non fa una piega. Ma passare lì davanti e chiudere la porta senza rompere le palle a nessuno, no eh?
- La morte alla Final Destination di Maureen della quale non aggiungo altro.
Per ultima cosa ma non meno importante, il sangue. Le uccisioni sono tutte filmate “alla Psycho” ovvero con inquadrature rapide del coltello impugnato che colpisce, vittima che urla e si vede poco e nulla, tranne la brutale fine della ragazza, che poi finirà nel ghiaccio, la quale viene tranquillamente sgozzata mentre fa pipì. Insomma, il sangue c’è e se ne vede parecchio. Il problema è che non si vede quasi mai da dove esce. Ma accetto questa scelta di violenza minimalista, probabilmente involontaria, che non fa abbassare il film al livello di un qualsiasi episodio di Venerdì 13 e che, almeno secondo il mio parere, giova parecchio allo stile del film e della saga, se così si può chiamare.
Anthony Perkins muore nel 1992 a causa dell’AIDS. Un buon attore abbastanza sottovalutato, un regista in erba che avrebbe potuto realizzare qualcosa di decente, una carriera purtroppo sempre terribilmente troppo legata al ruolo di Norman Bates. Candidato all’Oscar e vincitore come miglior attore a Cannes, Anthony rimarrà comunque e sempre parte della storia del Cinema.
Poi, a me, Psycho III è piaciuto parecchio. Eccheccazzo.
Gente matta al Motel Bates. Oggi anche con la faccia di Jim Carrey.