Dopo la registrazione del suo nominativo al bureau d’accueil l’italiano avrebbe varcato l’ingresso che lo avrebbe condotto nel giardino dell’edificio, in rue Descartes. Il giovane impiegato dal maglioncino di cachemire e dal taglio di capelli alla moda gli restituì la carta d’identità e gli consegnò un adesivo da esibire all’ingresso. “È solo per la prima volta, al momento della registrazione”, gli fu detto. Appiccicò l’adesivo all’esterno del portafoglio e si indirizzò verso la porta a vetri che dava sul giardino. La porta era custodita da due uomini in elegante divisa grigia bordata da sottili righe arancio. Pure la cravatta era arancio, e spiccava sulla camicia bianca. I due avevano il compito di verificare l’identità delle persone, controllare il lasciapassare e, in caso, ispezionare borse e zaini. Gentili, entrambi. L’italiano non aveva riposto il portafoglio nella tasca interna del soprabito, in previsione del controllo. Anzi, per facilitarlo e renderlo più veloce, così aveva pensato, tenne la carta d’identità in mano, per poterla mostrare rapidamente ai due sorveglianti. Si avvicinò a loro, mostrò il lato del portafoglio su cui aveva appiccicato l’adesivo e, assieme, la carta d’identità. “Bonjour, monsieur”, lui e uno dei due sorveglianti si scambiarono lo stesso saluto, con una frazione di secondo tra l’uno e l’altro. “Prego, si accomodi”, gli fu detto. Fece tre passi, varcando il breve corridoio che dall’uscita andava verso una grande porta a vetri, la quale dava accesso al giardino interno dell’edificio. Pochi scalini ancora e poi avrebbe cercato il luogo dell’appuntamento. Tuttavia, non appena giunse sul piccolo pianerottolo in pietra, all’esterno, dopo aver varcato la porta a vetri, sentì una voce che, credé, si stava indirizzando a lui. “Monsieur, mi scusi”. L’italiano trasalì, e si voltò. Uno dei due sorveglianti lo aveva in effetti chiamato, e dietro a lui lo seguiva, a un passo, il collega. “Scusi, monsieur, lei è italiano, vero?”. “Sì, certo”. “E da dove viene?”, gli fu chiesto in un ottimo italiano. “Da T…”. “Può aprire il portafoglio, per favore?”. “A che scopo, mi perdoni?”, domandò a sua volta l’italiano. “Non si preoccupi – sorrise il sorvegliante – non è per il controllo, volevo solo che lei mostrasse al mio collega la tessera del codice fiscale”, e sorrise. “Uh, va bene”, rispose di rimando, stupito, l’italiano, che così apri il portafoglio, al cui interno, sulla sinistra, erano ordinate, in tante piccole tasche, le tessere e le carte plastificate. Tra queste compariva la tessera bianca e verde con stampigliato in rilievo il suo codice fiscale. La dicitura “Ministero delle Finanze” e il simbolo della Repubblica Italiana facevano indiscutibilmente di quella tessera un documento ufficiale. “Ecco, vedi, è il codice fiscale”, disse il primo sorvegliante al collega. “È un codice che ti viene attribuito quando lavori in Italia, e ce l’avevo anch’io. È sufficiente inserirlo in un terminale di un computer ed esce tutta la tua situazione fiscale”, gli spiegò con soddisfazione, ma la sua voce lasciava pure intendere quella che l’italiano percepì come una nota di nostalgia. Il collega, un po’ stupito e un po’ divertito, annuì e rientrò. Il primo sorvegliante, invece, ne approfittò per scambiare due chiacchiere con l’italiano, dopo che questi gli domandò se aveva vissuto in Italia, visto che conosceva il codice fiscale e sosteneva di averne avuto uno, oltre a parlare perfettamente la lingua. “Oh, sì. Sono stato dieci anni a Pavia, dove ho lavorato e ho acquistato casa. Ho pure fatto un mutuo, perché l’Italia mi è sempre piaciuta, e un giorno voglio ritornare a casa mia. A Pavia, voglio dire”, specificò, sorridendo. “Come mai è a Parigi?”, chiese allora l’italiano. “Eh, che vuole, è la crisi, io mi occupavo di spedizioni e la ditta per la quale lavoravo è fallita. Si faceva fatica a trovare un altro lavoro buono come quello, sa, ne ho fatti diversi, anche due contemporaneamente, perché lavorare mi dà soddisfazioni, ma con la crisi ho deciso di andarmene, di trasferirmi in Francia. Qui a Parigi trovare lavoro è facile”, face una piccola pausa e sorrise di nuovo: “Sa, i francesi non hanno tanta voglia di lavorare, non sono abituati a lavorare come in Italia”. L’italiano non sapeva se, di fronte a una tale confessione gli venisse restituita con grande naturalezza un’evidenza indiscutibile o, semplicemente, un punto di vista del tutto soggettivo che, in quanto testimonianza vissuta, possedeva il valore di verità che si può attribuire alle esperienze individuali. O se, ancora, era un modo per corrispondere a un pregiudizio che, forse, il sorvegliante sapeva essere comune tra gli italiani del settentrione, una specie di immagine stereotipata nella quale amano rispecchiarsi. Quale che fosse il senso di quella frase, l’italiano trovò però l’ambiguità felice e, con essa, tutto il senso di una specie di appartenenza comune tra sé e il sorvegliante che mai avrebbe potuto immaginare quando, pochi istanti prima, aveva varcato la soglia dell’ingresso. Se non avesse dovuto cercare il luogo dell’appuntamento all’interno dell’edificio, varcare il giardino, e individuare la sala in cui si sarebbe dovuto trovare di lì a pochi minuti, forse sarebbe rimasto volentieri a parlare con il sorvegliante, tanto più che costui dava l’impressione di gradire molto la sua presenza. “Ah, e si trova bene a Parigi?”, rilanciò allora l’italiano, sapendo che di lì a poco avrebbe dovuto interrompere quella strana conversazione. “Ah sì, qui la vita è meno complicata”, confessò il sorvegliante. “Poi ho molti amici, i quali mi hanno invitato qui quando hanno saputo che avevo delle difficoltà con il lavoro in Italia”. “Ed è qui da molto?”, chiese l’italiano. “Quasi un anno, ed è poco rispetto ai dieci anni a Pavia. Però là ho il mutuo, la mia casa, e un giorno ci ritornerò. Anche se qui ho gli amici, faccio questo lavoro a tempo indeterminato e – lo sa? – ne ho trovato pure un altro a part-time per il weekend. No, non è difficile inserirsi a Parigi, a parte un po’ la burocrazia, e i prezzi degli affitti”, disse. “E poi”, aggiunse, “per noi ivoriani in Francia non c’è neppure il problema della lingua”, così disse il sorvegliante all’italiano. “Ma lei è venuto per la conferenza, vero? Non la voglio trattenere. E poi io devo tornare al mio posto di lavoro. È stato un piacere parlare con lei”. “Piacere mio”, disse l’italiano al sorvegliante. “Arrivederci”, lo salutò, e sorrise di nuovo. [rk]