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Breve storia del denaro (parte 17a): circuiti paralleli in URSS

Creato il 01 novembre 2012 da Davide

Abbiamo visto finora circuiti paralleli legali di denaro. Ora parlerò delle mie esperienze su circuiti al confine tra legale e illegale o decisamente illegali in Unione Sovietica, India, Messico e al confine tra USA e Canada. Mentre i primi tre casi riguardano esperienze di viaggio fatte di persona, l’esempio al confine USA-Canada riguarda il lavoro su campo che ho fatto nel 2008-2009.
1969. Unione Sovietica. Io e Flavia avevano risparmiato sulla misera paga settimanale fornitaci dai genitori, che giustamente pensavano che le vacanze e le spese voluttuarie ce le dovessimo pagare da sole. Eravamo studentesse universitarie e avevamo deciso di passare dieci giorni a Mosca, all’epoca avvolta dalla gelida atmosfera politica dopo l’invasione della Cecoslovacchia del 1968 http://it.wikipedia.org/wiki/Primavera_di_Praga .
Devo ricordare che in quel periodo era facile per persone intraprendenti fare soldi, dato che esistevano letteralmente centinaia, se non migliaia di lavoretti e attività che un giovane poteva fare, senza essere massacrato dal micidiale uno-due di pesi massimi come l’Agenzia delle Entrate e i Sindacati, che hanno distrutto migliaia di lavoretti nella fanatica ricerca del controllo totalizzante sulla vita delle persone, noto anche come biopotere. Così uno poteva aiutare lo zio in pizzeria il sabato per una mancia esentasse, oppure fare la baby-sitter, o darsi al micro-commercio, oppure dedicarsi alle partite a carte semi-professionali, se era bravo, ecc. Io e Flavia davamo ripetizioni ai figli del vicino al piano di sopra, un colonnello (poi generale) dei carabinieri, vendevamo collanine hippie fatte da noi all’università, facevamo dei lavori extra in casa per un compenso, ecc. Insomma riuscivamo a guadagnare abbastanza da pagarci la benzina alla FIAT 600, a comprare le sigarette (all’epoca fumavo, per fortuna ho smesso da anni, perché ormai un pacchetto di Marlboro legali costa quasi più del ‘fumo’) e anche a permetterci qualche pizza e birra fuori casa. Non eravamo iscritte al PCI o alla CGIL e d’altronde non avevamo voglia di partecipare a tour intruppati, mentre l’URSS aveva da pochissimo aperto al turismo individuale, non solo a viaggi pre-organizzati dal partito comunista, dal suo sindacato e dall’ambasciata sovietica. In compenso, avevo conosciuto per corrispondenza un tale Vitali, un camionista siberiano che aveva scritto all’Unità (allora organo ufficiale del PCI) per fare esercizio di italiano, lingua che studiava per diletto a un corso serale. Finché Vitali abitava a Irkutsk http://it.wikipedia.org/wiki/Irkutsk , vicino al Lago Baikal, Siberia centrale, non avevo preso in considerazione l’idea di andare a trovare il ‘popolo che balla’, cioè i siberiani, così detti perché quando stanno fermi si muovono sulle gambe quasi ballassero, per non congelare (l’estate no, sembra). A un certo punto Vitali aveva chiesto al governo di potersi trasferire a Mosca e stare con la sorella e aveva ottenuto il permesso, dato che era considerato politicamente affidabile. Fu così che decidemmo, Flavia e io, di andarlo a trovare e farci fare la guida da lui. Anche se quella di Vitali è una storia a sé, prima di passare al tema del denaro, mi limiterò a dire che, da siberiano, Vitali a Mosca si sentiva claustrofobico (anche se il traffico era quasi inesistente e i viali della città di misure imperiali), così dopo un po’ chiese di essere trasferito nei campi minerari della Penisola di Kola http://it.wikipedia.org/wiki/Penisola_di_Kola , dove all’inizio della primavera, secondo una delle sue ultime lettere, gli uccellini così scriteriati da uscire in volo cadevano a terra congelati, ma Vitali si sentiva di nuovo a suo agio.
Appena aperta l’URSS al turismo individuale, l’unica a gestirlo era l’agenzia CIT o Compagnia Italiana Turismo S.p.A. http://it.wikipedia.org/wiki/Compagnia_Italiana_Turismo che fece un lavoro pessimo, ma questa è un’altra storia. Per poter andare in URSS uno doveva pagare in anticipo il soggiorno dall’Italia; una volta giunti a destinazione, nel nostro caso Mosca (ci volevano circa tre giorni di treno, il Torino-Togliattigrad, operativo da qualche anno per servire le fabbriche FIAT grazie alla mediazione remunerata del PCI), dovevamo presentarci all’Ufficio Centrale dell’Intourist. L’agenzia statale ufficiale (e unica) per il Turismo in Unione Sovietica per i turisti non sovietici, fu fondata nel 1929 da Giuseppe Stalin e riempita di funzionari dell’NKVD e poi del KGB, i servizi segreti sovietici. Come monopolista della maggior parte dell’accesso e transito di stranieri in URSS, l’Intourist divenne una delle maggiori agenzie di viaggio del mondo, compresa una sede in Canada, con un network che comprendeva banche, hotel e agenzie di cambio. Prima di poter accedere al nostro hotel, il Bucaresti, dall’altra parte della Moscova e quindi più economico, ci presentammo all’Ufficio Centrale dell’Intourist. Questo, contrariamente alle nostre aspettative, si trovava sì all’interno del più lussuoso albergo sulla Piazza Rossa, il Metropol, ma non aveva un ufficio faraonico per impressionare i clienti, era piuttosto un ufficietto che assomigliava più a uno sgabuzzino. Qui una sonnacchiosa impiegata (e agente del KGB ovviamente) ci consegnò i buoni del vitto e alloggio pre-pagati in Italia, ci fece cambiare una piccola parte dei nostri cento dollari in rubli, ci spiegò sommariamente dove si poteva comprare in rubli (nei negozi russi) e dove in dollari, cioè nei negozi statali esclusivamente per stranieri, che in genere si trovavano all’interno degli alberghi per stranieri e dove i russi in teoria non potevano entrare.
Scoprimmo presto che le nostre idee di pasto (tre al giorno, colazione, pranzo e cena) e quelle russe erano assai diverse. Così consumavamo molto meno del valore dei nostri buoni pasto, per cui ci restituivano il resto in rubli. Ci trovammo presto con Vitali e pagavamo pranzo e cena anche a lui con i nostri buoni-pasto, e nonostante andassimo in ristoranti considerati di lusso (che Vitali non avrebbe mai potuto permettersi) come quelli degli hotel Rossia e Pekin, al momento del conto pagato con i buoni continuavano a darci resto in rubli. Nei negozi russi, come i famosi grandi magazzini GUM, non c’era praticamente niente da comprare, nel senso che gli scaffali erano vuoti e la gente aspettava anche giorni per poter comprare merci di prima necessità, come abiti e scarpe da lavoro, o generi alimentari. Comunque sia facemmo scorta di vodka Moskovskaja, all’epoca considerata di prima qualità, e andammo nel quartiere di Fili-Mazilovo, alla festa di compleanno di un tenente dell’Armata Rossa che festeggiava nel caseggiato di Vitali, dove vivevano gli scapoli, in stanze con due o tre letti ognuna e il bagno in comune in corridoio.
Venivamo avvicinate in continuazione da persone che ci offrivano di cambiare i dollari in rubli al mercato nero, ma noi non avevamo certo il problema di avere tre o quattro volte il valore del cambio ufficiale dollaro-rublo. Al contrario, nonostante ci trattassimo alla grande, compreso Vitali, avevamo il problema di spendere i rubli, dato che era proibitissimo esportarli anche in quantità minima fuori dei confini dell’URSS. Chi l’avrebbe mai detto che i nostri sforzi di studentesse a stecchetto di reddito, ma intraprendenti a Padova, ci avrebbero ripagato con un lusso che a Mosca era sfrenato? Spendemmo i nostri dollari comprando regali e souvenir per amici e parenti, compresa una balalaika con gli ultimi quattro dollari (per dare un’idea dei prezzi: era niente anche allora) e scialammo i nostri rubli, tenendone una piccola scorta, circa dieci rubli, per pagarci da mangiare e da bere per i tre giorni in treno al ritorno. Non solo fatica inutile, ma addirittura un problema serio. Nessuno ci aveva detto che un trattato internazionale ferroviario idiota esigeva che ogni volta che il treno passava una frontiera, si dovesse pagare nella moneta locale, cioè rubli, fiorini ungheresi, dinari jugoslavi e lire. All’andata grazie, si fa per dire, all’agenzia CIT, che aveva dimenticato di farci il visto ungherese di transito, ci avevano buttato fuori dal treno e accompagnate alla frontiera jugoslava. Qui, con l’aiuto di una lunga catena di gente incontrata per caso, riuscimmo a riprendere il treno per Mosca a Budapest, non il Torino-Togliattigrad, ma una tradotta militare dell’Armata Rossa di ritorno dalle manovre del Patto di Varsavia. Il capotreno aveva deciso che il biglietto fatto a Padova continuava ad essere valido e ci trovò un paio di posti; per via dell’inseguimento del treno internazionale in corriera e in treno locale non avevamo mangiato in treno e quindi non sapevamo nulla di questa legislazione internazionale.
Così ci trovavamo con dieci rubli non esportabili, che valevano meno della carta su cui erano stampati dopo il confine, ma, avendoli dichiarati ingenuamente alla guardia di frontiera, rappresentavano un problema. Non potevamo buttarli via (insulto allo Stato sovietico), né darli alla guardia (tentativo di corruzione), né tenerli come souvenir (sempre reato perché esportazione di capitale!!!). Alla fine il funzionario optò per la soluzione tre e ci raccomandò di non dire niente a nessuno. Così finì che facemmo amicizia con il capotreno del Togliattigrad-Torino, un ucraino grosso come un orso molto grosso, che ci regalò litri e litri di tè russo molto forte e zuccherato anziché farceli pagare come doveva, e un armeno con lo scompartimento letteralmente ricoperto da cielo a terra di casse di caviale rosso, certi pescetti affumicati e vodka di marca, che portava in Italia. Lui ci sfamò senza taccagneria, anche perché gli venne un’infezione intestinale quasi subito e non poteva mangiare. Noi ci sdebitammo dicendo ai finanzieri della frontiera italiana che l’armeno era un sospetto caso di colera (era scoppiata un’epidemia in Russia proprio in quei giorni) e quelli si guardarono bene dal ficcare il naso nel suo scompartimento.
Morale della storia: nonostante il soffocante controllo statale, con tanto di servizi segreti a spiare i nostri passi a Mosca, scoprimmo che esistevano di fatto tre monete, i rubli, i dollari e i buoni, da giocare a seconda dei casi. Esisteva una rete di mercato nero e cambio illegale quasi alla luce del sole o almeno tollerata in generale con un occhio chiuso, in cambio di una fetta della torta. Infine esisteva una rete informale che, in cambio di poter parlare con uno straniero qualsiasi, come eravamo noi due, ci ha regalato sia all’andata che al ritorno aiuto e sostentamento. (segue)


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