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Breve storia dell’allevamento zootecnico in Italia

Creato il 08 ottobre 2013 da Informasalus @informasalus

mucche
Il consumo procapite di carne dal primo dopoguerra ad oggi è aumentato da 18 a 92kg

Facendo ricerca nel web mi sono imbattuta in domande inerenti la zootecnia che, in quanto studentessa del settore, mi hanno spiazzata. Perciò ho deciso di scrivere una breve, forse non abbastanza, storia dell’allevamento zootecnico in Italia.
A partire dal secondo dopoguerra, per soddisfare la crescente richiesta dei prodotti di origine animale a basso costo, si è sviluppato il modello di gestione intensivo, perseguito attraverso l’aumento delle dimensioni aziendali e della densità animale e la riduzione dei costi di produzione. Dagli anni ’70 poi, la produzione di latte è diventata talmente conveniente che nell’arco di un trentennio il miglioramento genetico operato sulle bovine e le innovazioni tecnologiche che lo hanno accompagnato e sostenuto hanno permesso di raddoppiare le produzioni per capo, sostanzialmente dai 15 ai 30 litri giornalieri per vacca.
Il consumo procapite di carne dal primo dopoguerra ad oggi è aumentato da 18 a 92kg, cui se ne sommano 23 di pesce, 13 di uova e 85 di latticini, quando il normale fabbisogno di proteine animali si stima in 35 kg complessivi. Questo smisurato aumento del consumo di alimenti di derivazione animale non poteva che presagire uno sfruttamento altrettanto smodato delle specie di maggiore interesse zootecnico, associando alla definizione di “animale” quella di “macchina”.
Vi fornisco un dato recente per farvi percepire meglio le reali dimensioni dello sviluppo produttivo di cui sto parlando: nel 2007 le aziende suinicole italiane erano circa 100.000 e il 3% di esse deteneva il 90% dei capi allevati (quindi si trattava già di un sistema intensivo), nel 2010 ne sono state registrate soltanto 26.000, con un aumento però della consistenza del patrimonio suinicolo nazionale, quindi con un incremento dei capi per allevamento.
Tutto questo ha portato, in un breve arco di tempo, al fallimento delle aziende artigianali medio-piccole che non avevano modo di concorrere sul mercato con le produzioni ormai ‘industriali’, e ad una standardizzazione e scadimento organolettico dei prodotti proposti su larga scala.
Più grandi divenivano le aziende, più necessitavano di ampi spazi pianeggianti, per la comodità nei trasporti e per la ridotta rusticità degli animali. Da questo possiamo intuire come il Nord Italia, o meglio la Pianura Padana, sia patria indiscussa di esse. Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte sono la culla degli allevamenti intensivi e madri accondiscendenti delle loro produzioni, alimentari e non (gas serra, nitrati, reflui ecc). Al giorno d’oggi, la grande pianura rientra fra le prime 8 aree più inquinate per azoto e fosforo su scala mondiale poiché vi si concentra oltre il 75% del patrimonio bovino nazionale (che ammonta a circa 6milioni di capi), oltre l’ 85% di quello suino (intorno i 9milioni di animali) e le medesime cifre per quello avicolo e cunicolo (rispettivamente di circa 500milioni e 150milioni di capi).
Finalmente arriva il momento in cui giungono al consumatore sbiadite voci o feroci testimonianze delle crudeltà inflitte agli animali allevati e si ha una tale mobilitazione della popolazione da portare, negli ’90, all’emanazione delle prime leggi, con rispettive deroghe (siamo pur sempre in Italia), sul benessere animale. Il cammino è ancora lungo e tortuoso e voglio citarvi un esempio del funzionamento del nostro Paese: il 3 gennaio 2012 è entrato in vigore in Italia il Decreto legislativo 267/2003 che attua la Direttiva comunitaria 74/1999 sul  benessere delle galline ovaiole.

Dopo i dieci anni di preavviso dati agli allevatori perché potessero attuare i cambiamenti necessari per adeguarsi alla legge, le gabbie convenzionali adottate negli allevamenti “batteria” non erano ancora state sostituite da quelle arricchite (di dimensioni maggiori, dotate di posatoi, nido oscurato, tappetino in gomma perché le ovaiole possano razzolare) o eliminate per predisporre l’ambiente all’allevamento a terra. Circa il 40% delle ovaiole era allevato ancora in gabbie tradizionali e per non costringere le aziende a multe salatissime o alla chiusura sono stati inizialmente sospesi i controlli sanitari che si stanno finalmente intensificando per far si che l’Italia gradualmente entri in linea con le direttive europee.
Il fatto che abbia preso il sopravvento l’intensivizzazione delle aziende zootecniche non ha comunque precluso lo sviluppo di altre tipologie di gestione, come quella estensiva e biologica, che si concentrano però nelle aree marginali del nostro Paese dove le strutture intensive non si possono insediare.
Nonostante l’allevamento ‘industriale’ preveda un’esagerata densità animale, periodi di allevamento sempre più brevi e minimi costi di produzione, è importante non attribuire a questo tipo di aziende colpa esclusiva dell’inquinamento ambientale o dei maltrattamenti subiti dagli animali. Non bisogna quindi generalizzare e sarebbe opportuno accertarsi, invece, che in ogni sistema produttivo fossero perseguiti il giusto equilibrio fra spinta produttiva e benessere animale e la limitazione dell’impatto ambientale.
fonti: ISTAT, appunti delle lezioni universitarie, FAO, Eurostat, clal, unaitalia.com



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