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BRICOLAGE (I puntata), di GLG, 14 gennaio ‘13

Creato il 15 gennaio 2013 da Conflittiestrategie

 

1. Innanzitutto voglio soffermarmi un attimo sul degrado culturale di questi tempi in cui dilagano bestioni con crani di capienza eguale a zero cm. cubi. Juncker, del partito popolare e presidente dell’Eurogruppo, propone un salario minimo garantito data la disoccupazione in crescita (e soprattutto, in realtà, per preoccupazione di tensioni sociali in un futuro non lontanissimo). Gli ignoranti scribacchini del Giornale, e simili, protestano contro questa “vetero-ricetta” di Marx. Si dà il caso che la teoria marxiana non sia un’opera di politica economica né sociale; non formula ricette per migliorare il capitalismo, e farlo durare di più, ma ne studia l’andamento – e non economico, bensì dei rapporti sociali – aperto alla formazione di due classi fondamentali in lotta, prevedendo l’acutizzazione del loro scontro con possibilità di transizione ad altra forma di società, ad altro sistema di rapporti sociali. Ho indicato mille volte in che cosa è consistito a mio avviso l’errore (scientifico) di Marx, un errore che apre la via a nuove prospettive teoriche se preso in considerazione da cervelli pensanti. Questo è però troppo difficile per le suddette teste di rapa. E allora tacciano, questi aspiranti alla vincita nella fiera delle castronerie!

Lasciamo poi perdere l’“agente americano” Draghi che vede roseo il futuro se solo si mantiene il rigore nel risanare le finanze, i conti pubblici. E naturalmente, dimostrando la tempra di questi “tecnici” ormai lanciati verso l’abbassamento dell’intelligenza umana al di sotto di quella del bonobo, si consola perché lo spread si è sfebbrato e le Borse sono in via di normalizzazione. Migliore (cioè meno peggiore) questo “vile personaggio” (definizione di Cossiga e non mia) o Juncker, preoccupato per le prospettive assai meno rosee sul fronte della disoccupazione, uno degli indici che è sempre stato rappresentativo della gravità delle crisi nel loro lato economico di tipo reale? Ma certo, che cosa volete che vedano dei banchieri? E per di più “quinte colonne” degli Usa in Europa?

 

2. E’ del tutto ovvio, credo, che per confliggere si devono stabilire alleanze, a volte perfino reali amicizie con robuste solidarietà “di gruppo”. Inoltre, l’idea che la lotta sia ineliminabile – che nemmeno vi sia una tendenza, sia pure di lunghissimo periodo, ad una piena cooperazione tra uomini – non implica affatto la totale insensibilità alla giustizia o almeno all’equità; tanto meno esige l’abbandono dei deboli: vecchi, bambini, malati, handicappati, ecc. Tanto più che per lottare tra “gruppi”, occorre crearsi dei seguaci ed in numero possibilmente crescente; ciò rende necessario ai nuclei dirigenti dei vari “gruppi” (formati o, ancor meglio, in formazione) di garantire o quanto meno promettere, e generalmente non solo al proprio seguito ma anche a buona parte degli altri, un minimo di condizioni di maggiore stabilità, sicurezza, benessere, ecc., almeno per il futuro.

Non suppongo alcuna presunta “natura umana”, un Dna con una sua “celletta” in cui sia inscritta la competizione senza quartiere. Più semplicemente, immagino che il “mondo” sia perpetuo movimento, con incessanti scosse e vibrazioni; immagino che ogni “corpuscolo” di “materia condensata” esista nell’ambito di “flussi d’onda”. Anche i portatori soggettivi del conflitto sono questi “corpuscoli”, dotati fra l’altro di un “materiale” particolare che chiamiamo pensiero, accompagnato da volontà, passioni, decisioni, ecc. Questi soggetti stanno dentro il movimento, tentano di restarci in equilibrio, ma esso è sempre instabile; si viene perciò periodicamente destabilizzati, le relazioni reciproche mutano e ci si sente fatti oggetto di raggiri e inganni da parte di altri, che mirerebbero ad alterare i rapporti di forza a loro favore. La lotta viene dunque fin troppo spesso vissuta da ognuno (dei vari gruppi o alleanze fra gruppi) come aggressione preparata e attuata da altri.

Perfino i “dominanti”, i “più potenti”, non sempre (si e ci) raccontano “soggettivamente” delle menzogne quando ufficialmente attaccano per primi, uccidono, devastano, perché si convincono d’essere minacciati dai “vicini”; minacciati nel loro sistema di vita, nelle loro credenze (in questa o in “altra vita”), nel loro potere che essi “decidono” essere quello che assicura stabilità al “mondo”, a tutta la parte di mondo in cui sono a loro proprio agio assisi al vertice del comando. Perché dei “barbari” vogliono turbare quel “meraviglioso ordine” con trame oscure, che rischiano di sfociare in contestazione di quell’ordine e del loro comando? Evidentemente, non possono che essere dei pericolosi criminali, da combattere ed eliminare.

E i popoli, i cosiddetti dominati, avvertono sovente lo stesso pericolo dei loro vertici e li seguono nell’aggressione ad altri popoli; o quanto meno lasciano agire, con proteste minoritarie, gli apparati del loro paese addetti alle aggressioni per conto dei suoi gruppi dominanti, sperando che ciò basti e non si chieda loro lo sforzo supplementare d’andare “in guerra” e crepare. Solo in quest’ultimo caso, e se i gruppi dominanti del loro paese perdono nello scontro, le “masse” si rivoltano e seguono i nuclei “protestatari”, inizialmente in minoranza, impotenti, soggetti a repressione. Una delle poche (a mio avviso) sciocchezze che disse Mao, grande capo rivoluzionario, fu che “le masse sono gli eroi nella storia” (ma la disse proprio convinto? E non è magari che gliel’abbiano attribuita i nuclei agenti in suo nome?). Le masse sono in realtà ammassi informi di poveri meschini, che seguono “a pecorone” fin quando non crepano in grande quantità e i loro gruppi dominanti sono infine sconfitti con i loro apparati di potere in rapida dissoluzione; allora si sollevano, ma vincono soltanto se sono ben dirette da nuove élites agguerrite e preparatesi per tempo, pronte ad assumere il potere e il governo del paese.

Sia chiaro che non si tratta di manifestare disprezzo per le cosiddette masse, salvo che in casi particolari; ad esempio verso quell’ammasso di individui di cultura pressappochista e superficiale, che ho denominato (in modo provvisorio e poco preciso) “ceto medio semicolto”, allignante nella cosiddetta “sinistra” di cui costituisce oggi, nei paesi a capitalismo avanzato, la “base”: belante e sommamente fastidiosa. La funzione che espleta nelle nostre società è del tutto negativa; tale ceto non è solo disprezzabile, ma da ritenersi pericoloso e da eliminare non appena se ne verificasse la possibilità. Spesso si è invece in presenza di gente che lavora, produce, e che – come suol dirsi – compie i suoi doveri, avendo però poca voce in capitolo e soprattutto poco tempo a disposizione per approfondire varie questioni necessarie ad afferrare la configurazione del potere esistente nei paesi in cui vive. Non disprezzarla non significa però continuare a pensarla come complesso di individui coscienti delle azioni che compiono o che dovrebbero compiere. Tanto più che sono proprio quelli, che fingono di crederli in possesso di conoscenza e consapevolezza, a tentare di manovrarli per il proprio esclusivo interesse.

Tutto questo è ovviamente ciò che vediamo nella “macrofisica” del movimento sociale e politico; nella “microfisica” (visibile utilizzando il “microscopio” della ragione astraente), esiste il movimento (“flusso d’onda”) vibratorio continuo, che provoca periodici forti squilibri e forgia vari gruppi sociali e alcuni nuclei dirigenti (gli agenti, i portatori soggettivi) obbligati infine a regolare i conti fra loro in una lotta che richiede, come già rilevato, alleanze, soddisfacimento di certi bisogni dei dominati, a volte più solidamente raggruppati in dati “blocchi sociali”.

 

3. Da molti e molti anni, mi sono convinto, come alcuni altri (una minoranza però), dell’inesistenza di un’autentica divisione politica tra destra e sinistra, così come si sono intese per una lunga epoca storica. Questa notazione è in parte corretta, ma solo in parte. E’ necessario fare attenzione al problema perché si sa bene come le “mezze verità”, se trattate superficialmente, si tramutino nel più completo travisamento della “realtà” (pur sempre tra virgolette poiché non dobbiamo mai ritenerla sicuramente accertata nella sua unicità priva di sfaccettature). Intanto è indispensabile chiarire che cosa sono destra e sinistra. Sono sempre state reputate correnti interne all’articolazione assunta dai gruppi politici che poi esprimono i nuclei andati, di volta in volta, al governo dei paesi nell’epoca più moderna, quella caratterizzata in linea generale dalla formazione sociale capitalistica.

L’ascesa di quello che fu ritenuto movimento operaio (della “classe” operaia) è stata ad un certo punto contraddistinta dalla divisione delle forze politiche che pretendevano di rappresentarlo: da una parte, le correnti “riformiste”, intese a conquistare posizioni di “potere” (in realtà di governo, questione un po’ differente) per i nuclei dirigenti con larga base in detta “classe”, “potere” accompagnato comunque da un miglioramento del tenore di vita di vasti strati di tale base tramite una più equa distribuzione del reddito prodotto; dall’altra parte, le correnti “rivoluzionarie”, che pensavano al compimento della prevista (da Marx e dal marxismo) transizione ad una nuova formazione sociale, prima socialista e poi comunista.

Parlare allora di destra e sinistra è largamente improprio perché è stato ben lungo il periodo storico in cui vi è stata una lotta accanita (e da nemici acerrimi) tra riformisti e rivoluzionari, tra “sinistra” (in definitiva divenuta quella forza politica denominata socialdemocrazia) e comunisti, che simile sinistra vedevano come il fumo negli occhi, la odiavano anche più della destra. Nel migliore dei casi, i comunisti ritenevano la socialdemocrazia la corrente di sinistra della borghesia (cioè del capitalismo così com’era conosciuto dal marxismo); certi altri, ma senza dubbio non comunisti, parlavano di corrente destrorsa del “movimento operaio”. Questa seconda definizione è più errata della precedente poiché presuppone soltanto quello che è in effetti poi divenuto il comunismo nel secondo dopoguerra in “occidente”, nel “campo” capitalistico del mondo bipolare: una forza meramente parlamentare, riformista anch’essa, soltanto più radicale della socialdemocrazia nel rivendicare migliori condizioni di vita e più equa distribuzione del reddito per una “classe operaia” – ridotta da collettivo cooperante, composto di portatori di lavoro intellettuale (e direttivo) e di portatori di semplice lavoro manuale (ed esecutivo), al solo insieme di questi ultimi – ormai di fatto convinta della, e integrata nella, riproduzione dei vari sistemi di rapporti capitalistici.

Quell’originaria divisione – che vedeva destra e sinistra come forze politiche entrambe interne all’accettazione dell’orizzonte riproduttivo capitalistico, mentre i comunisti contestavano in toto questo orizzonte – è rimasta in piedi fin troppo a lungo, anche quando ne sono venute meno le condizioni storico-sociali, rappresentate dal capitalismo borghese di matrice inglese espansosi al continente europeo. Tale sopravvivenza di pura forma (terminologica) della divisione in oggetto è stata infine la responsabile della progressiva obnubilazione del significato vero di sinistra, che si riferiva in effetti alla presenza di correnti “opportuniste” (“revisioniste”) nel movimento operaio, in cui sussistevano pure frazioni rivoluzionarie. Ad un certo punto si è parlato solo di destra e sinistra e si è dimenticata la netta distinzione di quest’ultima rispetto al comunismo; e ciò accadde anche prima che si verificasse il tracollo del “campo” (o polo) detto impropriamente “socialista”, dove la base “operaia” (in realtà al massimo popolare, e sempre meno con il trascorrere del tempo) dei partiti ancora denominati comunisti (in “occidente”) continuava a credere fosse in costruzione la nuova società, comandata e governata dai suoi “simili”. E così gli ultimi maleodoranti resti del “comunismo” sono stati pienamente integrati nella denominazione di sinistra, con ciò indicando la trasmutazione degenerativa avvenuta, e tuttavia tenuta nascosta per qualche tempo ancora da dirigenti rinnegati e traditori ad una base ormai rimbambita e stinta rispetto al suo vecchio colore rosso (di cui coltiva, in vecchi babbioni e giovani incolti, qualche residua nostalgia).

 

4. Il progressivo mutamento, di cui ho soltanto indicato alcune linee direttrici (poche invero), è effetto di quanto avvenuto negli Stati Uniti, dopo la guerra di secessione (vero atto fondativo della potenza statunitense, pur se come nazione festeggia il 4 luglio 1776) e negli anni della “grande depressione” (soprattutto europea, 1873-96). Qualcuno anche negli Usa – dove ad es. il sopravvalutato Veblen parlò di “classe agiata” come se il capitalismo americano fosse eguale a quello dei rentier, che alla fin fine nemmeno si diffuse in Europa, malgrado le errate analisi dei marxisti, accecati dal declino del capitalismo borghese inglese – pensò allo sviluppo di un capitalismo simile all’europeo, osservando la classe borghese del New England, il cui centro è Boston. Quella borghesia si oppose ad es. alla guerra contro l’Inghilterra nel 1812. Essa fu tuttavia la prima a innescare lo sviluppo industriale e fu quindi all’avanguardia nel movimento che portò alla guerra civile del 1861-65; eppure i gruppi dominanti che la componevano non possono considerarsi i veri antesignani del capitalismo di tipo statunitense (i funzionari del capitale, i promotori della rivoluzione manageriale, o altro).

Negli Usa si sviluppò in definitiva una forma sociale notevolmente diversa dall’europea, per quanto sempre fondata sull’impresa e il mercato – ma con un marcato senso individualistico, privo di regole troppo costrittive, senza falsi pudori e ipocriti “sensi dell’onore”, con una stretta commistione tra attività economica e criminalità – di cui nemmeno mi metto a parlare, vergognandomi un po’ per come siamo stati tutti (non i soli marxisti) incapaci di afferrare il significato del nuovo capitalismo di marca americana, che s’impose in pratica in modo già irreversibile all’epoca della prima guerra mondiale, ma le cui caratteristiche sono emerse ancora più prepotentemente dopo la seconda, perfezionandosi a mio avviso dopo il “crollo” dell’antagonista supposto “socialista” (il quale forse, ma non è al momento decidibile, potrebbe dare vita ad ulteriori altre forme di società, non però “senza classi”). Solo la cinematografia americana ci dà, più spesso di quanto sembri, qualche bagliore d’intuizione del nuovo sistema di rapporti sociali lì formatisi ormai da tempo, mentre noi ci limitiamo a balbettare di capitalismo tout court, con gli stantii riti della lotta tra capitalisti e lavoratori salariati.

Guardando alle forze politiche presenti negli Usa, si può forse dire che i democratici sono la sinistra e i repubblicani la destra, nel senso che tali denominazioni hanno avuto per all’incirca un secolo e mezzo in Europa? La risposta è in tutta evidenza negativa. Non si faccia confusione con il trasformismo della sinistra in Italia (ufficialmente iniziato con Depretis, 1876). La commistione, e quasi confusione, di certe posizioni tra democratici e repubblicani ha tutt’altro significato, a mio avviso oscurato e nascosto dietro l’indicazione di un “sano pragmatismo” americano. Non è solo pragmatismo, è il portato di una “struttura” di rapporti tra gruppi sociali, dov’è difficile tracciare – come si fece in Europa pur con l’aiuto di forti ideologie – dei confini pensati come esistenti “tra classi”; negli Usa hanno invece buona rilevanza le etnie, le provenienze geografico-sociali e culturali degli emigrati, le diverse credenze religiose, ecc.

Ovviamente, hanno forte influenza gli interessi economici di dati gruppi “dominanti”, nell’ambito di una concorrenza, che solo una pesantissima e impenetrabile nebbia ideologica – come quella propagandata dagli ottusi del neoliberismo europeo, e italiano in specie – può far credere orientata dalla smithiana “mano invisibile” (non è un caso che laggiù un Chandler illustrò al contrario la decisività della “mano visibile”). E laggiù è relativamente scoperta – e illustrata pur sempre da un cinema ben più coraggioso – la presenza di gruppi di pressione con i loro centri strategici, che portano scompiglio nel mondo intero mediante trame “oscure” (non poi tanto, in realtà, confinanti inoltre con la criminalità, le cui organizzazioni sono utilizzate spesso direttamente come mano d’opera per la “competizione mercantile”). Non c’è gran mistero circa la commistione tra economia, politica e ideologia (con i vari loro apparati specifici) nel conflitto. Solo i servi (ideologi da quattro soldi) degli immondi e succubi nostri gruppi subdominanti creano confusione con un neoliberismo d’accatto.

E’ dunque evidente che in un paese simile appaia più chiaramente la preminanza della politica (sequenza di mosse strategiche nel conflitto per la supremazia) che ho posto alla base delle mie teorizzazioni da ormai molti anni, mantenendo del marxismo (soltanto del pensiero di Marx e della prassi di Lenin, in realtà) quella che è l’analisi “strutturale”, l’importanza attribuita ai rapporti tra gruppi sociali, alle alleanze di possibile instaurazione tra essi, ai nemici da combattere prioritariamente, e via dicendo. E’ altrettanto evidente come negli Stati Uniti i due partiti maggiori possano a volte intrecciare le loro politiche e dividersi perciò sovente al loro interno, con la formazione di correnti di entrambi i partiti che appoggiano le medesime decisioni, mentre altre correnti, sempre “miste”, vi si oppongono. Tuttavia, non è lecito sostenere che non esiste differenza tra repubblicani e democratici; la loro distinzione e, in certi momenti, il loro aspro contrasto – che trova fra l’altro perfino espressione geografica e di articolazione sociale e produttiva, come messo chiaramente in luce nell’ultima elezione presidenziale – è piuttosto evidente.

 

5. L’Europa è attualmente un ammasso di paesi in cui esistono gruppi subdominanti; cioè dominanti all’interno di ognuno d’essi e tutti subordinati, chi più chi meno, ai dominanti statunitensi. Anche per la lunga storia alle spalle, in cui sono stati paesi dominanti nel mondo, non hanno evidentemente assunto in pieno i caratteri della formazione sociale statunitense, da definirsi capitalistica per quanto riguarda la sfera economica caratterizzata da mercato e imprese, pur se muta profondamente lo stesso significato di simili termini quando diventa così differente il rapporto tra l’economia e le altre sfere sociali. D’altronde, è ormai tramontato in questi paesi europei il capitalismo borghese e l’influenza predominante statunitense si è comunque manifestata nelle forme economiche, in quelle ideologiche e in quelle politiche. In queste ultime si è fatta ambigua, e pasticciata, la distinzione tra destra e sinistra. Non pensiamo però più a ciò che queste sono state fino, diciamo, a mezzo secolo fa o poco più. E soprattutto teniamo conto che il crollo del pur presunto socialismo ha impresso accelerazione al mutamento; in particolare in Italia, paese di speciale subordinazione agli Usa.

E tuttavia, anche qui da noi, si stia attenti a non pensare che nessuna differenza sussista più tra i due schieramenti. Vi sarà continua commistione tra essi, anche più che negli Stati Uniti, poiché i subdominanti, nella loro totale inettitudine e subordinazione ad un potere straniero, non hanno alcuna “personalità” propria, sono carta straccia, foglie al vento, privi di vere strategie. Ed infatti, i passaggi dall’un schieramento all’altro sono incessanti, le proposte (pseudo)politiche dei due si confondono e poi mutano con estrema facilità, dimenticando le precedenti. Tuttavia, vi sono, grosso modo, dati gruppi sociali che votano uno schieramento e altri gruppi che votano l’altro; e li votano perché li considerano effettivamente contrapposti, difensori degli interessi di questi o di quelli. E coloro che oggi immaginano di rivolgersi all’antipolitica (sedicente tale), oltre ad essere, io credo, meno numerosi di quanto si dica, lo fanno in ogni caso perché li si è convinti che tutti sono ladroni, imbroglioni, incapaci, ecc. Eliminati questi, sarà forse però ancora possibile, secondo tali individui totalmente ignari di che cosa sia la politica, trovare chi difende i loro interessi.

In definitiva, quindi, non pensiamo più secondo le vecchie categorie. Non ne abbiamo ancora di veramente nuove, questa la nostra disgrazia. Almeno, però, cominciamo con il prendere atto della nostra arretratezza culturale e teorica, della nostra impreparazione ad affrontare la nuova epoca che si è già aperta da tempo e che ora va accelerando il passaggio a nuove configurazione dell’ordine (cioè disordine) mondiale e dei rapporti sociali interni alle varie formazioni particolari. Destra e sinistra non hanno più da molto tempo i contenuti che li contraddistinguevano all’epoca delle grandi ideologie che si confrontavano in Europa, grosso modo corrispondenti ai gruppi sociali inerenti al capitalismo borghese. Dopo la seconda guerra mondiale, queste definizioni andavano già stingendosi e connotando realtà politiche diverse, in parte simili al nuovo capitalismo (se ancora lo vogliamo così considerare) ormai affermatosi da tempo negli Stati Uniti, divenuti la formazione particolare che giocava da centro (relativamente) coordinatore del “campo capitalistico” (occidentale).

Sia per la diversa, e lunga, storia alle spalle e sia per la gelatinosa (in)consistenza che caratterizza le società delle formazioni subdominanti, non si è arrivati, pur scimmiottandoli, a schieramenti simili a quelli americani dei repubblicani e dei democratici. A questi però si guarda pur nell’insipienza politica che ormai pervade tutto l’occidente, del resto – almeno mi sembra – contaminando in parte perfino gli Usa. Non diciamo però semplicemente, per facilitarci i compiti non più pensando, che ormai destra e sinistra sono la stessa cosa, svolgono la stessa politica (che di politica non ha certo il “sapore”). Siamo in una grande palude, questo è certo; tuttavia, in essa si formano addensamenti di fango che, con modalità diverse, attraggono a sé la melma circostante. Con il tempo, probabilmente, ci si accorgerà del formarsi di nuove e più solide condensazioni. In ogni caso, si stia all’erta e non si facilitino i compiti dei vari gruppi di subdominanti che, mentre noi ci beiamo del nostro intellettualistico storcere il naso decretando il loro essere la medesima putredine, attirano ancora fiotti di votanti; certo una massa di beoti, al momento solo confusamente vocianti in presenza del gigionesco recitare di scadenti guitti da avanspettacolo, e tuttavia convinti che questi ultimi siano differenti fra loro. E i meschini teatranti si presentano all’“inclito pubblico” con denominazioni sempre nuove, ma che rinviano, in ultima analisi, alla destra e alla sinistra.

La si smetta inoltre con le banalità dell’informazione che permea l’intera società, della TV e media in genere che forgiano una indistinta “opinione pubblica”. Qui stava la superiorità del marxismo (e dei comunisti che sapevano utilizzarlo nell’epoca del capitalismo borghese): esso individuava a grandi linee il formarsi di gruppi sociali – in lotta fra loro – con le loro diverse “rappresentanze” politiche. La situazione è oggi più incerta, pasticciata, appunto gelatinosa; esiste quell’insieme di gruppi sociali (pur diversi) affastellato sotto la denominazione di ceti medi. Tuttavia, non sono finite le differenziazioni, esiste pur sempre la rete di relazioni sociali che forma un sistema “strutturato”.

Impegniamo infine il nostro cervello a sbrogliare l’ingarbugliata matassa e non dichiariamo, con superficiale sicumera: è un unico gomitolo di fibre sfilacciate. Se così continueremo a bofonchiare, saremo solo oggettivamente conniventi dei mediocri e verminosi subdominanti del nostro continente e del nostro disastrato paese. Il ceto intellettuale, che si pretendeva critico, addirittura rivoluzionario, ha conosciuto una débacle di proporzioni ciclopiche; non per un piatto di lenticchie, per più lauti “pranzi” invece, esso ha comunque venduto ogni fibra del suo cervello. O si riesce a mettere mano alla ricostruzione di un nuovo intelletto collettivo o questo “occidente” sarà veramente finito, “tramonterà” presto.

 


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