Image by Walter Siegmund
Il freddo è pungente, ma non me ne curo. La mattina mi aspetta da una notte intera e io non posso deluderla.
A torso nudo mi immergo nel suo profumo, assaporando la nebbia che si intrufola nei miei polmoni e li riempie, rendendomi parte del cosmo. La luce è fioca, lattiginosa e plumbea, o forse no… Non è luce di piombo, ma d’argento quella che vedo, di un argento ormai dimenticato e impolverato, ma che non manca di mostrare la propria maestà.
Pochi uccelli mi tengono compagnia, mentre il sole viene schiacciato dalla miriade di goccioline che invadono l’aria intorno a me. Un fruscio tra l’erba, un abbaiare lontano.
La mattina è mia.
Il pino sopra di me sembra desiderare il natale, addobbandosi di mille minuscole sfere di luce, e i suoi aghi leggermente scossi dalla brezza sembrano gioire di quei ninnoli.
Anche io voglio gioire insieme a lui. Allungo il braccio, punto il dito e insinuo la mia mano tra i suoi aghi. Le sfere di luce si staccano da lui e cercano di trovare nuova vita in me. Mi scorrono sulla mano, poi sul braccio, sulla spalla e sulla schiena, compiendo percorsi tortuosi e voluttuosi, come se volessero accarezzarmi piano.
Un brivido mi scuote, e sono vivo. La nebbia dentro il petto e la luce sulla pelle.
Neri.