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Broken Age: Atto II – Ne è valsa la pena?

Da Videogiochi @ZGiochi
di Michele Lerda

Tim Schafer, il capo di Double Fine è un personaggio abbastanza di rilievo nel mondo videoludico, dopo aver lavorato per anni in LucasArts rivestendo ruoli importanti in alcuni dei giochi più famosi e importanti degli anni ’90, ha fondato il suo studio sviluppando giochi dal concept interessante ma qualitativamente altalenanti. Nel lontanissimo febbraio del 2012 Tim riuscì a compiere una piccola magia, si presentò sugli schermi di tutti i giocatori per chiedergli di finanziargli una avventura grafica che altrimenti non avrebbe mai visto la luce. Nel filmato faceva anche una piccola apparizione Ron Gilbert, cuore dei primi Monkey Island, anche lui era stato reclutato per il progetto. Per il finanziamento era stato scelto un sito che ai tempi non conosceva ancora quasi nessuno, Kickstarter, da quel giorno molte cose cambiarono radicalmente. I giocatori reagirono all’annuncio con un interesse assolutamente inaspettato, offrendo al team oltre tre milioni di dollari, nonostante ne fossero stati richiesti solo 200.000 per avviare il progetto. Tim ai tempi non mostrò niente, nessuno aveva la minima idea di cosa avessero realmente finanziato, nonostante questo la presenza di due maggiori esponenti del genere era una rassicurazione più che sufficiente. Circa un anno fa abbiamo provato l’atto 1 di Broken Age, una parte che mostrava uno stile grafico affascinante ma la difficoltà bassissima e la scarsa longevità lasciavano grandissimi dubbi sullo sviluppo del progetto. In queste ore dopo una serie infinita di rimandi e di ritardi finalmente è arrivata la seconda parte conclusiva. Vediamo insieme se n’è valsa la pena aspettare tanto.

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Inversione dei ruoli

Se state leggendo questa recensione in teoria dovreste aver finito il primo atto del gioco, per sicurezza abbiamo cercato di limitare al massimo gli spoiler, e comunque si riferiscono solamente alle fasi iniziali del primo atto. Shay e Vella sono due giovani dalla vita decisamente particolare, il primo vive isolato su una navicella spaziale circondato da peluche mentre la seconda è stata destinata ad un sacrificio umano. La sorte dei due protagonisti è destinata inevitabilmente a intrecciarsi con un cliffhanger che concludeva il primo atto. Il secondo atto si apre esattamente dove li avevamo lasciati, con le ambientazioni invertite, con Shay a girovagare tra sabbia e nuvole e Vella sull’astronave un po’ più malconcia. Broken Age: Atto II non parte nel migliore dei modi, risulta evidente fin da subito che non ci saranno nuove ambientazioni almeno fino alla parte finale. Toccherà rigiocare una seconda volta nella manciata di stanze già visitate pur con qualche variazione, ma non sufficientemente estese da indurre un senso di novità. Se vogliamo essere brutalmente sinceri la carenza di un numero adeguato di ambienti è una delusione. Un backtracking così palese annulla un po’ la freschezza del gioco e degli enigmi proposti, un aspetto su cui avrebbero potuto fare qualcosa di più.

I due protagonisti alle prese con un mondo che non conoscono, dovranno lavorare di meningi aiutando numerosi personaggi per riuscire a capire come tornare a casa. L’anno scorso Atto 1 lasciò seri dubbi sulla difficoltà del gioco proponendo enigmi decisamente troppo semplici. In questa seconda parte i ragazzi di Double Fine hanno corretto il tiro proponendo situazioni decisamente più ostiche. Il game design è letteralmente da manuale, vi verrà presentato il problema e solo successivamente potrete trovare una soluzione. Questa regola non viene sempre rispettata alla lettera, una rigida imposizione causerebbe blocchi alquanto antipatici che si riscontrano in altri giochi del genere, ma a livello generale il più delle volte non capita di anticipare gli enigmi. Quanto a varietà è evidente che i creatori abbiano fatto di tutto per realizzare qualcosa, se non nuovo, almeno vario. Shay e Vella dovranno fare un po’ di tutto da compiere una investigazione dove la logica avrà un ruolo base, a trovare il modo per sciogliere ostici nodi. Adesso passare da un personaggio all’altro ha un ruolo più importante anche se solamente nelle fasi finali vi troverete a selezionarli a ripetizione. Più volte sarà necessario ottenere informazioni da un protagonista per poi usarle con il secondo. L’idea non è stata gestita sempre nel migliore dei modi e meno di non giocare l’avventura tutta d’un fiato c’è il rischio di perdersi qualche pezzo. Seguendo il feedback dei giocatori gli enigmi sono si più complessi, ma non sempre logici, sopratutto nella parte finale dove l’aumento di difficoltà è andato nella direzione sbagliata. In più occasioni al posto di proporre puzzle realmente difficili vi troverete ad dover gestire situazioni dove andare per tentativi casuali sarà l’unico modo per procedere oltre. Si tratta di qualche enigma frustrante all’interno di una avventura di per sé solida, dispiace che inserirlo sia stato chi questo genere l’ha praticamente inventato e dovrebbe sapere bene cosa funziona e cosa no.

I dialoghi presenti in Broken Age: Atto II sono tanti e presentano numerose battute, lo humor come nella parte precedente è presente ma meno marcato rispetto alla tradizione LucasArts. Sfortunatamente i vari NPC molto raramente hanno qualcosa di interessante da dire oltre ad assegnarvi gli enigmi, e molte delle righe di testo possono essere saltate senza perdersi nulla. La storia si dimostra piacevole, ma un po’ insipida. Shay e Vella si trovano a scoprire che il loro mondo è pieno di bugie e di bugiardi, le fasi dell’uscita dall’infanzia e dell’adolescenza possono essere anche interessanti ma la domanda che ci poniamo è: perché? Se hanno chiesto soldi a giocatori che avevano un PC negli anni ’90 di conseguenza sono più vicini ai trenta che venti, perché fare una storia per adolescenti? Il finale anche è carino, ma è carente di pathos con una progressione un po’ piatta fino ad una conclusione che non esalta. Naturalmente il cuore di una avventura grafica sono gli enigmi e questa volta sono più solidi, resta un peccato che il filo conduttore tra un puzzle e l’altro si sia rivelato un po’ debole e con plot hole abbastanza mal gestiti. Complessivamente questo seconda fase è lunga circa il doppio della precedente, per portare a termine il gioco partendo da zero ci vorranno un po’ più di dieci ore, tempo tutto sommato nella media del genere.

Graficamente non abbiamo molto da aggiungere rispetto a quanto già detto per il primo atto. La grafica resta sempre molto bella con uno stile originale e decisamente ispirato. Lo stesso vale per il sonoro di altissimo livello e del doppiaggio (inglese) della stessa qualità. I controlli sono rimasti sempre molto semplici con solamente la croce e un piccolo menù a scomparsa in basso. Risulta evidente come siano stati pensati per i tablet e poi adattati al PC, cliccando su un oggetto Shay o Vella eseguiranno in automatico l’azione, che sia esaminare se non c’è nulla da fare o raccogliere/parlare. Un problema che poteva essere risolto facilmente lasciando più libertà ai giocatori ma che evidentemente dagli sviluppatori non era considerato tale.

bello ma…

Per un altro gioco probabilmente non sarebbe stato necessario aggiungere altre parole, ma Broken Age non è un gioco come gli altri. Premesso che una recensione non è mai completamente oggettiva perché il passato di chi scrive ha sempre un ruolo rilevante nel giudicare. Per questo gioco il background riveste un ruolo ancora più importante ed è bene distinguere cosa potrebbe provare chi si è avvicinato in questi giorni per la prima volta e cosa pensa chi lo ha finanziato ed atteso. Se nel 2012 Tim Shafer avesse detto che questo sarebbe stato il risultato è molto probabile che la campagna di raccolta fondi non sarebbe andata altrettanto bene. Broken Age: Atto 2 è alla prova un buon gioco, sicuramente interessante e con uno stile grafico originale, ma non è quello che è stato promesso ai finanziatori. Durante la fase uno Tim molto probabilmente è stato incapace di gestire l’enorme quantità di soldi arrivati che finirono prima del previsto e si concentrò più sul contorno che sul cuore del gioco. Doppiatori famosi e musiche suonate da orchestre importanti possono fare piacere ma, non riuscirono a colmare le carenze complessive. Durante questa seconda fase con disponibilità economica più ridotta i creatori fortunatamente sono stati costretti a concentrarsi di più sull’avventura e i risultati si vedono, al prezzo però di un riciclo pesante di tutti gli elementi già creati. Broken Age è bello da vedere ed è bello da ascoltare, ma queste sono tutte cose qualunque titolo con abbastanza soldi può ottenere. Quello che manca è unicità e l’originalità che due pezzi da novanta avrebbero potuto dargli, ma che non sono riusciti a trasmettere nel loro lavoro. Viceversa, chi invece ha preferito aspettare che uscisse in versione completa e non aveva interessi a finanziare il gioco, si troverà davanti una avventura interessante e che potrà giocare senza l’amaro in bocca che proveranno gli altri giocatori.

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