La miseria del Dicembre parigino
Quale dicembre parigino? - ci viene da chiedere, visto che lo ricordiamo difficilmente, tipo, per esempio, il nome del presidente del Partito Socialista Tedesco. Il dicembre parigino del 1995, verificatosi da poco (sto scrivendo all'inizio di febbraio del 1996), non è diventato un paradigma come il maggio parigino; la sua tenue scia luminosa non è stata registrata dalla storia. E questo non solo a causa della differenza climatica fra i due mesi. Vale perciò la pena di ricordare: nel dicembre del 1995, la Francia è stata scossa per alcune settimane in maniera quasi tanto forte quanto nel maggio del 68. Non c'è stata nessuna occupazione di fabbriche, e anche lo sciopero generale è avvenuto solo in maniera indiretta: in virtù della paralisi dei trasporti pubblici, sono stati praticamente paralizzati tutti gli altri settori. Il motivo dello sciopero è stato particolare, ma la causa, al contrario, socialmente universale. Il governo del primo ministro Juppé ha proposto (niente di straordinario nel mondo contemporaneo) "tagli drastici" nell'interessi di uno Stato finanziariamente a secco: restrizioni di risanamento del settore ferroviario e restrizioni riformatrici della sicurezza sociale e della salute, nei servizi pubblici. Da un punto di vista superficiale, si trattava, almeno in parte, della cancellazione dei privilegi (seppure abbastanza modesti) della pubblica amministrazione. Di solito, un interesse così limitato non è in grado di acquisire universalità sociale, tanto meno uno sciopero del servizio pubblico che grava sensibilmente sulla vita quotidiana e consuma rapidamente i nervi di una popolazione che non riconosce i suoi interessi particolari in quelli dei funzionari pubblici. Spesso, un simile effetto avviene in un governo in conflitto sociale con i suoi sudditi; ovviamente, Juppé sperava anche di sfruttare quest'ondata di opinione contro gli scioperi. Un tale calcolo, però, si è dimostrato del tutto errato.
Il momento corporativista dello sciopero venne immediatamente invaso da una protesta sociale generalizzata che si estese molto al di là del suo motivo specifico. In strada non scesero soltanto gli scioperanti direttamente coinvolti, ma anche centinaia di migliaia di simpatizzanti. In molti rapporti, si parla di una "esplosione di sentimenti sociali", dell'improvviso risvegliarsi di uno spirito di solidarietà, di una riscoperta dell'arte di improvvisare e di un cameratismo umano visto solo in occasione di grandi incendi e di catastrofi naturali. Una specie di miracolo di Maria in mezzo al deserto dell'individualizzazione e dell'assenza di solidarietà tipiche dell'economia di mercato? L'ultra-reazionario Thankmar von Münchhausen, della sezione finanza del Frankfurter Allgemeine Zeitung, si mostrava stupefatto:
"Nessun governo democratico dovrebbe permettere che i francesi subiscano le privazioni imposte quotidianamente, da quasi già tre settimane, dai sindacati. Ogni semplice denuncia delle conseguenze - perdita di sonno e di opportunità di vita e di affari - parte dall'affermazione che si comprendono perfettamente le esigenze degli scioperanti. Nessuno mette in discussione il diritto di sciopero, neppure nelle imprese di monopolio statale. A giudicare dalle voci rassegnate, si potrebbe pensare che i funzionari pubblici non entrano in sciopero in maniera egoista contro la società, ma piuttosto in nome della stessa" .
Senza volerlo, commenti del genere, tratti da un periodico conservatore ed anti-sociale, arrivano alla questione; lo sciopero di dicembre a Parigi ha ricevuto sostegno perché di fatto gli sioperanti - un po' inconsciamente - sono saliti sul ring come rappresentanti di tutti i salariati. Soltanto a prima vista, erano in gioco le pensioni dei ferrovieri o l'assicurazione sanitaria dei funzionari pubblici: in realtà, l'obiettivo della protesta era il consenso neoliberista delle élite. Erano le irritanti dichiarazioni sulla "imprescindibilità" della cosiddetta riduzione dei costi sociali e sulla "percezione necessaria", a provocare la bile delle masse francesi. Ed a ragione. Si sa da molto tempo che la mattanza sociale è generalizzata e che alla nostra gola è puntato un coltello affilato. L'incredibile sfrontatezza delle élite economiche è arrivata al colmo - e non solo in Francia - di voler imporre il fallimento sociale del suo sistema come se fosse una legge naturale che dev'essere accettata, e tutti si devono "adattare" a queste misure. Il vero miracolo sociale di Maria è che le élite in tutto il mondo non siano state ancora impiccate a causa di tanta impudenza. Ma mentre i salariati tedeschi, con tanta buona volontà, si calano i pantaloni in nome delle leggi del mercato, i francesi mostrano quanto meno la volontà di resistere alle molestie.
Forse un motivo in più. che ha contribuito, è quello del grossolano inganno dell'elezione di Jacques Chirac, nella quale, però, anche i francesi, contro le loro stesse convinzioni, sono stati imbrogliati, lasciandosi abbindolare come tutti gli individui stregati dall'economia di mercato. Il presidente socialista Mitterand - da tempo trasformato in monolite, cioè, muto e privo di idee come una pietra - aveva dato inizio alle restrizioni sociali, sotto la pressione delle "leggi sistemiche" del mercato capitalista, in forma analoga a quella del monolite tedesco Helmut Schmidt, che aveva dato impulso alla "riduzione dei costi sociali", cui il governo di Helmuth Kohl avrebbe poi dato seguito con così tanto successo. Tenendo conto che la memoria degli individui nel mercato è estremamente corta, il candidato conservatore Chirac, nella lotta per la successione di Mitterand nell'autunno del 1994, ha avuto l'astuta idea di proclamarsi come una specie di populista di sinistra che dichiarava di difendere socialmente la Francia contro gli eccessi neoliberisti dei socialisti pro-Europa.
Citando una nota di Emanuel Todd - membro della Fondazione Saint-Simon, di natura accademica - Chirac si lasciò trasportare dalle promesse sociali. Secondo Todd, le linee del confitto sociale non corrispondevano più alla politica - e questo significava che, almeno nella propaganda, la politica sociale ed il conservatorismo potevano procedere uniti quasi come ai tempi di Bismarck, mentre l'ideologia progressista ed internazionalista dei socialdemocratici (vincolata, tuttavia, all'economia di mercato), faceva un ben triste figura davanti agli strati sociali inferiori. L'errore logico era, però, che Chirac in effetti non contava più, a differenza di Bismarck, su un campo di azione sociopolitica, ma piuttosto era costretto, sotto l'influenza degli Stati Uniti o della sognata unione monetaria europea e sotto la pressione dei mercati mondiali, a prendere velocemente partito (velocemente anche rispetto alla memoria corta del mercato) a favore di brutali restrizioni e a rompere così, apertamente, con le sue promesse tattiche della campagna elettorale. Se in Germania, ciascuna delle promesse elettorali poteva essere infranta senza grossi danni, in Francia, una tale procedura viene ancora implacabilmente punita.
Il dicembre parigino tuttavia non diventò un maggio. Un movimento che non ha sogni non è un movimento. Il sogno del maggio parigino forse era stato uno di quelli che, già durante il suo corso, non siamo più nemmeno in grado di ricordare, esso può essere stato inconseguente e non focalizzato, ma fu il sogno di un'altra vita, una vita oltre la stupidità economica del mercato. Interpretato dagli uni come un'utopia debole e dagli altri come una variante democratica del "socialismo reale" in Occidente, fu solo quella traccia di un sogno a fare del maggio parigino qualcosa degno di essere storicamente ricordato. Questo sogno, come ogni sogno, già allora sfuggiva alla capacità di comprensione degli apparati dei partiti e dei sindacati. Ecco perché tali apparati si aspettavano che, al pari del collasso del socialismo statale nell'Est, collassassero anche tutte le idee volte ad un'alternativa al sistema. Speravano così di poter estrarre, pragmaticamente, il meglio, al di là delle cosiddette idee "irrealizzabili" e dogmatiche o utopiche.
Rare volte l'anti-sogno dei burocrati occidentali è stato beffato in maniera così atroce. Non avevano capito che, nella dialettica capitalista, solamente l'esistenza del sogno, trasformatore di un modo di vita e di una produzione fondamentalmente diversi, è quello che costituisce in maniera diversa il loro stesso diritto all'esistenza - sia come accoliti esitanti e frenanti un fine anticapitalista e la rivoluzione sociale, oppure (è la regola) come tecnici sociali borghesi, o anche, se necessario, forse, come accoliti della repressione. Fra questi due poli si trova il campo delle possibilità sindacali, che include le riforme sociali e anche perfino la semplice difesa contro la "riduzione dei costi sociali". Dal momento che sono rimasti solo i "realisti", devoti dell'economia di mercato, il polo della critica radicale è sparito. Insieme ad esso, però, anche tutto il campo delle possibilità sindacali è crollato, poiché non si dà capacità d'azione unidimensionale e dotata di un unico polo.
Se i sindacati non rappresentano più una coscienza che, nonostante la forma di circolazione capitalista introiettata, contenga un momento di trascendenza al sistema, allora il suo stesso diritto all'esistenza è del tutto infondato. Allo stesso modo, in quanto la sua legittimazione delle idee è congruente col sistema dominante, il suo campo d'azione tende a zero. Il superamento (seppur meramente parziale) della concorrenza tra i salariati, così come lo espongono i sindacati, è impossibile senza un momento di critica radicale del sistema e, pertanto, di un opzione - anche se non esplicitata - per il superamento pratico del sistema, come ultima garanzia. Davanti all'inesistenza anche della più vaga idea di questa opzione, i sindacati si vedono assolutamente depredati dalle "leggi di mercato", e così non possono più evidenziare ai loro membri dei vantaggi degni di menzione. Allo stesso tempo, diventano superflui anche come paraurti del capitalismo contro la scalata dei movimenti sociali. In questa maniera, si impone in forma logica la concorrenza individuale sfrenata fra i proprietari della merce "forza lavoro". Il risultato può essere solo la progressiva auto-dissoluzione dei sindacati, come da molto tempo già suggerisce la costante riduzione dei loro membri. Tolti gli istituti di carità come la Caritas e l'Esercito della Salvezza, come istanza sociale della società capitalista, rimane oggi soltanto ed esclusivamente l'amministrazione statale dei poveri e dei lavoratori.
La triste assenza di sogni della società occidentale, dopo la fine dell'attuale critica (mossa dai vecchi marxisti) al capitalismo, porta anche al collasso dei sindacati. I loro membri, privatisi da soli dei sogni, dimenticano che la loro esistenza è possibile solamente come amministratori di un vecchio sogno di emancipazione sociale oramai da molto tempo sepolto. Hanno dimenticato che anche lo stesso riformismo più superficiale, e all'interno del sistema capitalista, ha pur sempre bisogno di una legittimazione che non può essere dedotta dagli stessi criteri sistemici, e necessita di un momento di dissenso. La perdita di ogni idea di trascendenza porta il riformismo sindacale ad una disperata difesa storica. Invece di essere in grado di agire in una forma strategicamente più aperta, libera dalla zavorra ideologica, i sindacati - la cui legittimazione è diventata insostenibile - sono vittime di una paralisi strategica. Ed invece di poter agire in maniera pragmaticamente più sicura, essi vengono ora spietatamente abbattuti dalle loro "parti sociali", che annusano il vantaggio.
Sicuramente, questa situazione non può essere ritradotta secondo le vecchie categorie della lotta di classe, secondo le quali la "classe capitalista" ed il "suo Stato" si trovano in pieno vantaggio strategico. Il vantaggio che le cupole di imprese e le associazioni di imprenditori traggono dal disastro strategico dei sindacati, si limita al ristretto calcolo economico-imprenditoriale, e non considera alcuna visione dello sviluppo della società come un tutto. Seppure faccia parte della natura del capitale - come forma di riproduzione sociale - rappresentare originalmente solo la somma delle azioni dell'interesse limitato al particolare - azioni queste che producono un risultato cieco e senza soggetto - l'interesse imprenditoriale per il futuro della società, vista come un tutto, non è mai stato tanto ridotto quanto lo è oggi. La difesa aperta e fiera di un vantaggio storicamente imprevisto ed il fatto che nel frattempo tutti vi si sottomettono nel quotidiano, ha un che di impulso suicida, dal momento che manca ogni riflessione sulle condizioni future della valorizzazione dello stesso capitale.
Questo diventa ancora più evidente se consideriamo il lato statale (quale che sia il versante partitico). La riduzione dei costi sociali obbedisce ai ciechi disegni degli indici di crescita negativa, della disoccupazione in ascesa, delle entrate statali in calo e del debito galoppante dello Stato, senza che venga considerata un'istanza regolatrice diversa dalla malaugurata "mano invisibile". In altre parole: la riduzione dei costi sociali, la "caduta di braccia" sociale imposta "dall'alto", l'appiattimento dei salari, ecc. non sono il risultato di un "grande piano" del capitale o dello Stato. Non vi è nessuna volontà politicamente strategica e di largo raggio che possa essere riconosciuta dietro le misure anti-sociali, sia in Francia che in qualsiasi altro paese. Lo stesso consenso ideologico e neoliberista delle élite è il risultato solo di un riflesso pavloviano al segnale di un mercato maniacale che si autoalimenta.
Proprio per questo, tuttavia, le proteste cadono nel vuoto, poiché gli stessi manifestanti riconoscono l'attività insensata dell'economia del mercato totale come "unica alternativa", e da molto tempo si sono incondizionatamente arresi alle leggi del sistema. Se non viene più messa in campo una semplice volontà sociale strategica, dalla quale si possa dare inizio ad una contro-strategia immanente al sistema - ma si dà luogo solo alla pura esecuzione della propria legislazione sistemica, senza alcuna strategia - allora non si dà più nemmeno il diritto di protestare. La vecchia lotta di classe intorno ai salari, alle riforme sociali, ecc., presupponeva non solo il sistema di produzione di merci, ma anche anche la sua capacità sociale oggettiva di riproduzione. Anche la minaccia implicita dell'alternativa al sistema, basata sul socialismo di Stato, era lontana dal trascendere le categorie della moderna produzione di merci. Ora diventa sempre più chiaro che la fine del sogno rappresentato dal socialismo di Stato va di pari passo con la fine della capacità di riproduzione sociale di tutti i sistemi produttori di merci, compresa la sua variante occidentale.
La protesta sindacale diventa così doppiamente indegna di fede. Essa non è più in grado di utilizzare il sogno del socialismo di Stato come un catalizzatore implicito, ed allo stesso tempo non pensa seriamente a trovare lo sbocco - sia negli apparati, sia nella coscienza delle masse - di un'alternativa al sistema (in Francia, non si desidera ricordare la scia luminosa lasciata dai situazionisti). Tuttavia, i sindacati si trovano nella contingenza di reagire alla crescente (ed inconfessata) incapacità di riproduzione del sistema. Essi devono, pertanto portare avanti un tipo di lotta di classe, ma paradossalmente senza fare riferimento alla lotta di classe. Devono acconsentire, senza riserve, alle leggi del sistema ed allo stesso tempo esigere misure contro le leggi del sistema (che però, chiaramente, non devono avere un tale nome). Se il sogno di una vita e di una produzione diversa, non più guidate dall'economia di mercato, praticamente non esiste più e si trova ad essere molto più lontana di quanto lo fosse nel 1968, i limiti oggettivi ed assoluti del sistema produttore di merci, da parte loro, sono molto più vicini di quanto lo fossero nel 1968. Prima c'era solo un piccolo sogno, mentre il campo di azione immanente al sistema era grande; ora non ci sarebbe bisogno di un grande sogno per essere in grado di sopravvivere in modo ragionevolmente decente. Brutte notizie per i realisti.
Il dicembre parigino, per ritornare al tema, ha messo in luce, in forma esemplare, la situazione desolata di conflitto dei sindacati e del movimento di protesta sociale in almeno tre punti. Primo, il movimento non si è mostrato subito con le sue proprie esigenze positive. Forse, per la prima volta nella storia dei movimenti sociali moderni, le ragioni da portare avanti sono state ridotte al pio desiderio che, a Dio piacendo, tutto potesse continuare in qualche modo come prima. In questo senso, lo stesso limite di evoluzione del sistema capitalista diventava evidente: negli ultimi 200 anni, ogni scatto di crescita qualitativa ha innescato sia esigenze politiche e sociali immanenti al programma, quanto momenti utopici e trascendenti da parte del movimento sociale "progressista"; la difesa aperta dello status quo, da parte sua, oggi stigmatizza l'ultima protesta sociale dei sindacati come un impulso letteralmente conservatore, o forse addirittura reazionario. Non potrebbe essere più chiaro che i sindacati, nella loro forma tradizionale, sono una forza sociale priva di futuro, giacché questo futuro non può più essere formulato.
Se in questo modo, i sindacati appaiono da subito come una retroguardia sociale conservatrice e meramente passiva, non c'è da meravigliarsi che, al contrario, l'amministrazione del capitale ed il governo assumono, per la medesima ragione, la posa di progressisti. Quasi in stile situazionista, hanno " detournato" il concetto di riforma dei sindacati - "detournement" era l'espressione utilizzata dai situazionisti per definire una raffinata ricodifica dei concetti, delle norme e dei comportamenti dominanti. Ora, da parte sua, il neoliberismo/neoconservatorismo dominante ricodifica in maniera raffinata il concetto di riforma, e trasforma una sintesi del progresso sociale in un termine ironico per definire la distruzione sociale. I sindacati hanno perso la loro quota nel potere di definizione rispetto al senso sociopolitico. Essi ora devono sapere che sono un ostacolo alle "riforme necessarie", oppure anche "incapaci di riforma". Non serve a niente voler rivendicare la codifica originale del concetto di "riforma" e sottolineare, per esempio, che il suo significato è solo un palese ritorno al pre-capitalismo. Questa nuova connotazione del concetto deriva dalle forme oggettivate dell'evoluzione della stessa economia di mercato, che non era così nemmeno nel "sogno" messo in dubbio dai sindacati.
In secondo luogo, il concetto di solidarietà, ipotizzato ancora una volta, squalifica automaticamente sé stesso quando viene strumentalizzato per l'attaccamento meschino alle gratificazioni dell'economia di mercato - gratificazioni, del resto, oggettivamente evanescenti. Di fatto, nelle attuali condizioni, l'esigenza che tutto rimanga com'è sancisce, in anticipo, la sorda mancanza di solidarietà verso coloro che da tempo si trovano "fuori" - sia nel vecchio Terzo Mondo, che nella periferia europea o nel proprio paese. Certamente, le richieste sindacali sono sempre state, conformemente alla loro natura stessa, un'espressione di interessi particolari. ed hanno anche sempre potuto adottare un carattere puramente difensivo. Ma nel passato della storia della modernizzazione, considerata ancora come un processo ascendente, la stessa lotta per l'interesse particolare nel quadro di un obiettivo parziale più ristretto era bagnata dalla luce di un'idea universale ed avvolgente di emancipazione sociale che, quanto meno, mediata ed indirettamente produceva un contesto di movimento sociale, al di là dell'opportunità immediata, e rendeva possibile una "solidarizzazione" senza restrizioni. Proprio per questo una richiesta in sé di puro carattere difensivo, poteva ascendere in un contesto strategico storicamente offensivo.
Però, con il riconoscimento incondizionato dell'economia di mercato, è sparito completamente il momento strategico dell'azione sindacale, e le battaglie difensive non possono più essere considerate una tattica in un più ampio contesto di emancipazione sociale. In questo modo, diventa assoluta l'esclusione di quelli che non sono coinvolti nelle richieste difensive. La solidarietà avviene allora soltanto per quelli che ancora non si trovano "fuori". In tal senso, i ferroviari ed i funzionari pubblici in sciopero nel dicembre parigino non combattevano, in realtà, in nome di tutti, ma soltanto in nome della quota di salariati francesi (ancora momentaneamente riproducibili nell'economia di mercato) che resiste contro l'essere scagliata nella massa dei già esclusi, per i quali non si dà solidarietà alcuna. Questo è diventato chiaro anche in termini istituzionali, quando Juppé ha convocato, il 21 dicembre, una "riunione terapeutica della cupola sociale", presso l'Hotel Matignon, sede del governo:
"Quasi ignorate dall'opinione pubblica [...] le associazioni dei cittadini privi di diritti (senzatetto, disoccupati e altre persone socialmente escluse), che sostengono di rappresentare cinque milioni di persone, hanno chiesto invano un posto al tavolo dei negoziati" (Neue Zürcher Zeitung, 22/12/95).
Sebbene una parte di queste organizzazioni o associazioni rappresenti meri interessi caritatevoli ed ideologie dubbie (che del resto non possono essere più dubbie di quanto lo siano le ideologie di adattamento all'economia di mercato), la loro semplice esistenza è già una prova dell'incapacità di partiti e sindacati a reagire alla miseria sociale degli esclusi, se non per mezzo di espressioni moralistiche senza coinvolgimento. La mancanza di una critica del sistema coincide con l'incapacità di rappresentare una massa crescente di persone socialmente "escluse". Mentre durante il dicembre parigino ribollivano i sentimenti sociali, questa "solidarizzazione" conteneva una grande quota di ipocrisia sociale. La restrizione corporativa dei funzionari pubblici veniva superata a favore di una meta-corporazione, di un cartello formato da coloro che ancora conservavano posto di lavoro e diritti: insomma, la pseudo-solidarietà dell'apartheid sociale. Soltanto una solidarietà illimitata, che si muova secondo lo slogan "Tutti o nessuno", merita questo nome. Se i sindacati costituiscono poco più di una banda organizzata, che riserva a sé stessa l'accesso alle scialuppe di salvataggio, senza alcuna considerazione per i deboli e gli sfortunati, la "solidarietà" si trasforma in una perversa virtù secondaria che racchiude il suo contrario.
In terzo luogo, il dicembre parigino ha rivelato la sua nullità storica per il fatto di essersi spogliato di qualsiasi espressione intellettuale, di ogni teoria. In occasione del 18° Congresso del sindacato Force Ouvrière - che insieme alla famosa CGT (più vicina al PCF) ha contribuito in maniera decisiva alla lotta del dicembre - il segretario generale, Marc Blondel, ha ammesso, due mesi dopo lo sciopero, che "non regnava una profusione di idee" (Neue ZurcherZeitung, 02/03/96). Questo è logico: quando non c'è più il sogno di una vita e di una produzione diversa, ossia, quando non c'è più la critica del sistema, quali idee economiche e sociali ci dovrebbero ancora essere, che non sono già state ripescate migliaia di volte, e che non sono ridicolmente indegne di fede? E questo, soprattutto, quando lo stesso avversario non si ispira più a nessuna idea (cioè, nessuna pretesa cosciente di "forma" e regolazione), per quanto si voglia dare il nome di "idea" alla propaganda neoliberista a favore dell'applicazione incondizionata di pseudo-leggi "naturali" ed impersonali del mercato.
Questo, ovviamente, non è colpa soltanto dei sindacati. Essi non hanno nemmeno bisogno di opporsi ad una nuova teoria critica del sistema, in quanto simile teoria non esiste nello spazio pubblico. Quello che già dalla fine degli anni 1970 era prevedibile, e che dopo la rottura epocale rappresentata dal 1989 è diventato evidente, si è rivelato per la prima volta in tutta la sua miseria nel dicembre parigino, sulla base di una situazione concreta di conflitto: al posto dello sbiadito marxismo dei movimenti operai, nelle sue diverse varianti, non si è vista nemmeno l'ombra di una nuova teoria critica della società da parte degli intellettuali di punta o della gioventù accademica. Il marxismo non è stato elaborato secondo lo sviluppo della società mondiale, ma è stato soltanto sotterrato. Al posto di una forma obsoleta di teoria critica, è sorta la totale assenza di teoria. Ora, per l'accettazione del mercato non c'è bisogno di teoria critica, e nemmeno di una teoria in generale. Mentre le cosiddette scienze sociali ed umane si arrendono ad una sorta di chiacchiericcio senza senso. La critica dell'economia politica, sia in Francia che in Germania che negli altri paesi, è scomparsa in maniera così compiuta dalle teste e dal discorso sociale come se non fosse mai esistita.
A differenza del maggio 68, non è emerso alcun impulso di idee, di critiche del sistema da parte degli studenti francesi. Parallelamente, le dispute intorno al servizio pubblico nel mese di novembre 1995, però, hanno portato ad uno sciopero nazionale degli studenti per ottenere migliori condizioni di insegnamento: "In più di trenta università sono state sospese le attività didattiche" (Frankfurter Rundschau, 29/11/95). Questo sciopero degli studenti, tuttavia, non ha avuto la qualità di un movimento studentesco sostenuto da idee, seppure non sia stato così inconseguente e privo di teoria quanto lo sciopero del funzionalismo pubblico. Com'è naturale, ai giovani che non vogliono altro che migliori opportunità nella lotta di concorrenza per uno stupido posto nel mercato del lavoro non c'è niente che interessi meno delle idee di critica sociale.
Il dato più saliente, forse, è stato lo smascheramento dei vecchi intellettuali di sinistra, degni di posizioni di reputazione. I falsi messaggeri del capitalismo della linea di Glucksmann & Co. fissavano in maniera stupita e sgomenta l'inatteso conflitto sociale refrattario a qualsiasi sistema, come protagonisti della postmodernità, con le loro conversazioni del più e del meno e i loro discorsi superficiali attraverso i mezzi di comunicazione. Solo dopo un'imbarazzante pausa pubblicitaria, alcuni illustri sociologhi dalla vecchia cattedra hanno la parola per mezzo di due manifesti opposti, raggruppati introno a due vecchi avversari, Alain Touraine e Pierre Bourdieu. Ma che decadenza al confronto dei dibattiti di venti, trent'anni prima, promossi ancora sotto il segno del marxismo. Non che i contenuti di allora potessero dimostrarsi promettenti ancor oggi, ma la perdita di qualsiasi livello intellettuale nelle dichiarazioni del dicembre parigino rendeva manifesto il fatto che i vecchi pensatori di punta facevano ora uso della parola solo in forma normale, ed il loro pensiero era incapace di dare formulazione critica alle contraddizioni reali della società in crisi alla fine del XX secolo.
Il primo insulso appello veniva formulato nel circolo della rivista Esprit, di tendenza cattolica di sinistra, e portava la firma di Touraine, che era lo spirito guida di un tale intervento. Il contenuto si riduce ad un semplice consenso alle "riforme" antisociali del governo Juppé, le cui "necessità" vengono evidenziate. Così, per la prima volta in Francia, i maggiori scienziati, intesi (in senso ampio) come "intellettuali di sinistra", si dichiarano apertamente contro un'azione sociale di massa e si schierano a fianco di un governo conservatore - un frutto marcio del "realismo" che ci si aspettava da molto tempo e che finora, per la mancanza di grandi lotte sociali, ancora non aveva avuto l'opportunità di rivelare il suo marciume (a proposito, va detto che il fanfarone ecologico franco-tedesco, Cohn-Bendit, ha anche lui difeso, in sostanza, la "riforma" di Juppé).
La posizione di Touraine è allo stesso tempo una chiara caduta nel nazionalismo, nella misura in cui si mostra preoccupata della "capacità di concorrenza della Francia" sul mercato mondiale, e teme che il "capitalismo sociale", specificamente francese, soprattutto il settore pubblico, sia incapace di adattarsi al processo di globalizzazione. Il vocabolo "adattamento", pertanto, si diffonde in Francia, all'interno del vecchio discorso critico. In nome della (pretesa) capacità nazionale di concorrenza sui mercati globalizzati, sarebbe opportuno sacrificare le gratifiche sociali, che del resto già da tempo sono diventate sempre più miserabili. Ecco come avviene l'inversione ideologica nella coscienza di molti intellettuali di sinistra, i quali, audacemente, hanno preso la direzione dell'economia di mercato. Non è la "capacità di concorrenza" che deve servire alla capacità di riproduzione sociale, ma proprio il contrario: la riproduzione sociale deve valere solo nella misura in cui serve alla capacità di concorrenza.
Persone come Touraine sono ormai incapaci di chiedersi quale sia, in fin dei conti, il senso del sistema del mercato e della concorrenza, se non rilascia più le sue gratifiche alle masse. Se prima le masse erano il dio di queste sinistre, oggi esse vengono a confessarsi con pose da innocenti davanti al dio della "valorizzazione del valore", questo mostro della modernità che, come un assurdo fine in sé stesso, è diventato la religione di Stato della democrazia. L'unico fatto che Touraine & Co. censurano nel corso dell'adattamento del governo all'economia di mercato, è la cosiddetta "insensibilità" della propaganda di Juppé nello spingere le sue misure contro la massa dei francesi. Questi intellettuali, convertiti in "consulenti" sociologici di una politica restrittiva, cominciano, quindi, a condividere l'illusione economica secondo cui un escremento di cane, confezionato dentro un imballaggio squisito, può essere venduto come se fosse una caramella. Allo stesso tempo, dimostrano, in questo modo, la loro attuale propensione ad essere "ricercatori di consenso", in tutto e per tutto diversi dai veri teorici della società. Ecco perché un tale appello si è anche guadagnato il nome di "lista degli esperti".
Di certo, il contro-manifesto del gruppo che circonda Bourdieu non ha un aspetto migliore. Quest'appello si pone senza riserve (ossia, senza critiche) al fianco degli scioperanti. La vecchia devozione alle masse viene nuovamente celebrata, sebbene senza un'idea trascendente. Di fatto, l'economia di mercato, per i sociologhi riuniti intorno a Bourdieau, è in ultima istanza tanto inevitabile quanto lo è per quelli riuniti intorno a Touraine. Ora, così, l'appello di solidarietà, lanciato da Bourdieau, si vede costretto a rivelare implicitamente il suo volto contrario alla "solidarizzazione". Se un tale aspetto non traspare per quanto riguarda gli inclusi nella solidarietà, invece, in riferimento agli esclusi, viene alla luce in maniera virulenta. "Dobbiamo adeguarci ad Hong-Kong?", si domanda Bourdieau, più demagogicamente che teoricamente. Tuttavia, l'allusione critica al lavoro infantile ad Hong-Kong ed in altre nazioni è giustificata solamente se può essere associata ad una critica radicale del sistema dell'economia di mercato; senza una tale correlazione, diventa un argomento ipocrita della concorrenza dei paesi del capitale forte contro i paesi del capitale debole.
L'appello "giacobino" di Bourdieu è effettivamente ancora più nazionalista di quello "pragmatico" di Touraine. Fa principalmente appello alla tradizione nazionale della Rivoluzione Francese, interpretata nel senso della "uguaglianza sociale" - un tema trito e ritrito. Certo, il vecchio socialismo era delimitato anche dall'economia e dallo Stato nazionale, così come i cosiddetti movimenti di liberazione antimperialisti. Tuttavia, il vecchio nazionalismo di sinistra rimaneva legato all'idea (insieme ad una fede storicamente borghese nella sua forma-merce) di un'alternativa socio-economica al sistema. Però, Se non viene più sviluppata una critica nuova, diversa e che investa il sistema, quello che allora rimane della critica sociale di sinistra è solo una qualche versione del nazionalismo sociale che, a sua volta, integrerà gli argomenti dei partiti della destra e dei suoi tirapiedi.
Il richiamo dell'appello di Bourdieau alle "tradizioni nazionali" ci porta fatalmente alla marcia ideologica nell'Est dell'Europa e in Russia, dove della vecchia ideologia socialista di Stato e della sua eredità politica, non è rimasto altro che un nazionalismo primitivo ed ordinario. E questo non cambia solo per il fatto che il sociologo Edgar Morin, per esempio - anch'egli uno dei membri della vecchia guardia degli intellettuali francesi di sinistra - si sforzi di voler conferire al nazionalismo sociale francese una dignità maggiore rispetto a quello degli altri paesi, giacché in Francia, il nazionalismo come tradizione rivoluzionaria, sarebbe sia un universalismo moderno che una "identità repubblicana". Tutto ciò è solo fumo negli occhi. Un ragionamento del genere è, ideologicamente, solo l'eterno invocare, da sinistra, le idee borghesi contro la realtà borghese; oggi, però, sotto il segno della sfrenata globalizzazione capitalista, per mezzo del cui processo vacillano i fondamenti dell'economia nazionale, si tratta del suicidio ideologico della sinistra.
Paradossalmente, Bourdieau ha anche affermato, in una intervista, la "necessità vitale" di una nuova "Internazionale degli intellettuali critici e dei movimenti sociali". Questo sembra promettente, ma, quando non viene detta una parola a proposito di una nuova critica radicale dell'economia di mercato, un tale clamore, purtroppo, non è degno di fede. Una "Internazionale" all'ombra del mercato accettato, e sulla base delle istituzioni economiche e politiche della nazione, è già diventata impossibile; e come potrebbe, una critica sociale debilitata e priva di concetti, che si aggrappa alle "tradizioni nazionali", acquisire una prospettiva ed una forza di irradiamento transnazionale? Un'Internazionale di nazionalisti sociali è una contraddizione in termini.
Se il nazionalismo di marca "Touraine" è indiretto, nel brandire una capacità fittizia di concorrenza nazionale (in realtà puramente imprenditoriale) nelle strutture globalizzate, senza prendere in considerazione i perdenti; il nazionalismo di marca "Bourdieau" è decisamente diretto, in quanto, nel nome dello status quo sociale, fa appello ad una tanto più fittizia autonomia economica nazionale contro la globalizzazione. Questi intellettuali non hanno più da offrire riflessioni critiche, ma soltanto riflessi affermativi e pseudo-teorici dell'economia del mercato totale. Il loro pensiero semplicemente duplica, nella sfera delle idee, la paralisi dei sindacati. Se il maggio parigino è stata l'ultima battaglia del vecchio radicalismo del movimento operaio, il dicembre parigino è stato lo scontro finale di una retroguardia storica che non ha più nemmeno un emblema proprio.
- Robert Kurz - Pubblicato sulla rivista Krisis n° 18, 1996