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Il Lupo prima o poi sbranerà tutte le pecore.
E non resterà nulla.
Sti 3,4 anni, da Dogtooth in poi, su questo blog ho parlato più di cinema greco che di qualsiasi altra cosa. Sarebbe inutile ribadire ancora una volta il mio folle amore per questo cinema ( e così, senza volerlo, l'ho fatto ancora), sarebbe inutile ripetere analisi, sensazioni e interpretazioni che di volta in volta, film per film, ho tirato fuori su sto cinema (ve le andate a cercare semmai).
E probabilmente vedere Sto Lyko per "ultimo" (almeno tra i 7 film che conoscevo e volevo vedere) è stata la miglior cosa perchè questo, pur essendo completamente diverso dai 6 precedenti, è forse il film definitivo sulla Grecia di questi anni.
Gli altri hanno provato a raccontarla in modi abbastanza indiretti, quelli surreali di Lanthimos, quelli durissimi ma comunque metaforici di Avranas e del suo Miss Violence, quelli narrativamente molto particolari di Luton (che a pensarci bene è forse il film che più somiglia a Sto Lyko per un certo verso, ossia per quell'accumulo di rabbia e sconfitta che poi porterà all'esplosione finale).
Sto Lyko no, Sto Lyko la crisi greca ce la sbatte in faccia in modo esplicito, talmente esplicito da mostrarci spezzoni dei tg sulla questione e da farne argomento principale di quasi tutti i, rari, dialoghi del film.
Cavolo, la stessa pellicola inizia con un pastore che maledice questa situazione e urla: "La Grecia è finita, è morta!"
Se gli altri sublimavano la crisi con l'arte deformando la realtà o metaforizzandola, Sto Lyko ce la documentarizza.
A tal proposito mi è successo proprio l'opposto che con Louisiana. Col film di Minervini mi aspettavo un doc e invece mi sono ritrovato sì un mostrare la realtà, è vero, ma molto sceneggiata. Con Sto Lyko mi aspettavo un film "classico" e invece mi sono ritrovato qualcosa che è quasi completamente documentario con, forse, una sola scena che rimanda del tutto alla finzione, quella della chiamata al cellulare non risposta (c'è sceneggiatura perchè vediamo e sentiamo, in montaggio alternato, anche il cellulare del destinatario suonare).
O.k, documentario, o.k, crisi esplicitata, o.k tutto. Ma il paradosso sta nel fatto che anche qui, forse come non mai, il potere metaforico è massimo.
Innanzitutto è stata straordinaria la scelta di mostrare la vita di due poverissime famiglie di pastori. Vivono già di stenti, perchè mostrare loro per parlare della crisi? Perchè è proprio in fondo alla catena economica che è più interessante mostrarla. L'unico commercio che i pastori possono avere sono gli animali che hanno. Ma se il macellaio che ne comprava le carni non ha più soldi loro rimangono completamente senza nulla, nemmeno 50 centesimi in tasca. L'aver mostrato come gli ultimi degli ultimi possano perdere i pochi spiccioli che "incassavano" è stato geniale. Ma la metafora è altrove, è in quelle pecore, in quei greggi, e in quello Stato Lupo che sta massacrando tutti.
Sto Lyko è un film sul nulla, perso in un tempo talmente fermo che quello che mostra potrebbe essere tranquillamente successo in 3 giorni, in 10, in un mese o in un anno, la percezione sarebbe identica.
E' un film di lamiere, cani che abbaiano, pecore che urlano, alberi morti e sassi.
Un film di campi lunghi e lunghissimi ma anche di primissimi piani di volti che hanno gli stessi spigoli e fratture del posto dove vivono.
Ad un certo punto ti chiedi, e questo forse è solo un effetto collaterale al film, che senso abbiano queste vite fatte di nulla, soltanto di gesti rituali persi nel tempo, di dialoghi che possono al massimo riguardare quegli stessi gesti rituali, di esistenze che non hanno una minima tensione verso nulla, di uomini e donne abbruttite sia nelle fattezze che nell'animo.
Ma la gente ama dire che la vita della campagna è quella vera, gli animali, le colline, l'aria buona, il cibo salubre, tutto vero sì, ma a tutto c'è un limite. L'ambiente in cui viviamo è di importanza capitale ma non può essere un guscio che ci comprime così, semmai qualcosa che allarga le nostre vite.
La vita pastorale, quella vita pastorale, è dannosa quanto quella del super manager fatto di cocaina.
"Il tempo di cui disponiamo ogni giorno è elastico, le passioni che proviamo lo dilatano, quelle che ispiriamo lo restringono e l'abitudine lo colma"
diceva qualcuno che sapeva scrivere come pochi. Ma qui non esiste elastico, non ci sono dilatazioni nè restringimenti, c'è solo un tempo colmato ogni giorno di ogni mese di ogni anno con la stessa abitudine.
Uscendo da questa amara riflessione e tornando al film l'unica cosa che posso dire è di esser rimasto come ipnotizzato.
Il primo gregge ripreso per 5 minuti buoni, con quei versi che, sentiteli, sembravano i lamenti della loggia di Eyes Wide Shut. Quelle colline così spoglie, quegli interni così spogli, quei dialoghi sul nulla. Lente carrellate a passo d'asino, una donna che calcia un riccio morto, un'altra che non riesce a star ferma su una sedia ripresa per altri 5 minuti.
E intanto si parla sempre più di crisi, e intanto quel'unico agnello che si doveva vendere non si vende più, e intanto rimane solo pane raffermo da mangiare, e intanto ci si avvina verso la fine.
E anche uomini che sembravano aver lasciato, durante gli anni, gli ultimi brandelli di umanità e pulsione lungo le strade polverose di una vita senza strade laterali ad un certo punto hanno occhi che sembrano bagnati.
E il film finisce così, e ti è sembrato già bellissimo.
Poi c'è un'ultima inquadratura ferma che sembra la solita natura morta dove scorreranno i pochi titoli di un povero film.
E poi senti il primo, e poi il secondo, e poi il terzo, e poi il quarto e poi il quinto e poi il sesto e poi il settimo e poi l'ottavo e poi il nono.
E urla di cani e pecore.
Il raggelante finale di un film magnifico.
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