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BuioLibri (N°1) Murakami - L'uccello che girava le viti del mondo
Creato il 25 aprile 2015 da Giuseppe ArmelliniScrissi il post sui libri con la malinconia derivante dalla forte sensazione di un amore ormai finito, come un ricordo, un omaggio, ad un mondo che non mi apparteneva più. La vostra partecipazione ed il vostro entusiasmo sono stati impressionanti.
Solo grazie a voi, a questa ondata di calore, ho avuto forza e stimolo di leggere di nuovo. Con il tentativo di scriverne poi, cominciando da oggi.
E se è vero che le recensioni dei film le scrivo per me, perchè mi fa bene, questo spazio invece esiste solo per voi.
E grazie a voi.
Ho cercato in ogni pagina, in ogni personaggio, in ogni vicenda, in
ogni sviluppo di trovare un senso a quello che stavo leggendo.
Uomini che amano stare in fondo a un pozzo, sogni ricorrenti, personaggi dai nomi di isole che appaiono e scompaiono, gatti che scappano e poi tornano, incontri casuali, una mazza da baseball che diventa filo rosso di capitoli e capitoli, racconti di guerre lontane, macchie viola che appaiono sul viso.
Ho cercato e sperato che poi, in qualche modo, tutto avesse una spiegazione.
Poi sono arrivato alla fine, e questo senso evidente che tanto speravo Murakami mi sbattesse in faccia non c'era.
Ed è solo qui, in questa mancanza, in questo lasciarti così che ho capito quanto l'Uccello che girava le viti del mondo sia un capolavoro.
La grande letteratura, i grandi scrittori sono quelli che potrebbero regalarti pagine su pagine anche sul nulla. Quelli che riescono a dare densità a vicende monodimensionali, quelli che penetrano ed espandono una materia anche piccola e banale.
E la magia di questo libro è che non solo sarebbe potuto essere di 100 pagine in meno (delle oltre 800) ma anche, volendo, 100 in tutto. O 1500. Perchè non c'è un tempo fisico qua, qui c'è il tempo delle vicende, quello della mente e quello del cuore, 2,3,4,5 dimensioni che si incrociano continuamente. E Murakami sta sopra a manovrare questi pupazzi del tempo e dello spirito come un burattinaio che gestisce sì ogni mossa, ma allo stesso modo sembra lasciarsi trascinare anche da loro, dai suoi pupazzi, da suoi sogni, dalle sue ossessioni.
L'Uccello che girava le viti del mondo non è altro che la storia di 3 soli personaggi, non uno di più.
Una coppia in crisi e il fratello di lei, un uomo nero dentro capace di plagiare e rovinare le vite degli altri.
E una vicenda così diventa nella mani di Murakami un libro enorme pieno di personaggi, pieno di temporalità, pieno di realtà alternative a quella reale. Tutto al contempo sembra vero e metaforico, tutto è banale e spiritualmente inafferrabile.
Un gatto è scappato di casa.
Toru Okada, trentenne felicemente sposato, non riesce a trovarlo.
Poi, pochi mesi dopo, scappa anche sua moglie Kumiko.
Toru vuole trovarla. E riconquistarla.
Iniziano ad accadere piccoli avvenimenti, sempre più inspiegabili. Toru incontra persone, parla con loro, fa telefonate, prepara caffè (centinaia e centinaia di caffè), fa tutto questo cercando piano piano (l'apatia è quasi motore delle cose) di capire non solo il mondo che lo circonda, ma anche sè stesso, Kumiko e quello che loro due erano in realtà.
C'è un filo conduttore che attraversa tutto il romanzo, ed è l'oscurità, il buio.
Il buio di una stanza in cui vengono spente le luci, come quella del cantante di piano bar che con una candela mostra a tutti l'esperimento della condivisione del dolore. O come la sala prove, nella quale qualcuno entra e, non si sa perchè, ha bisogno di toccare la voglia di Toru.
C'è poi il buio degli occhi chiusi, quello nel quale decine e decine di volte Toru cerca di concentrarsi.
C'è il buio della notte, vero e proprio personaggio del film.
C'è il buio del sonno, dimensione decisiva nel libro, l'unica nella quale Toru riesce forse, faticosamente, a riavvicinarsi a Kumiko. Ma c'è anche il sogno di un bambino, un terribile sogno (straordinario capitolo) che priverà quel bambino della parola per sempre.
C'è, se vogliamo, anche il buio degli occhialini da nuoto che Toru deve indossare la prima volta che si trova ad usare il suo "potere".
E c'è poi il buio più importante, quello in fondo al pozzo, quello che fu per la prima volta sperimentato dal tenente Mamiya il giorno che la luce lo svuotò della vita.
"La luce viene ad illuminare le azioni della vita per un periodo di tempo limitato e brevissimo. Per qualche decina di secondi soltanto, forse. Passati i quali se ne va, e se uno non è riuscito ad afferrare la rivelazione che gli veniva offerta in quel momento, non avrà una seconda opportunità"
Ed è il buio che adesso va continuamente a ricercare Toru.
Nel suo pozzo.
Il buio in questo libro è in realtà luce, l'unica dimensione nella quale veramente si è in grado di vedere.
E di capire.
Ci sarà anche un settimo buio, quello del coma, un buio che in qualche modo dovrà essere interrotto...
Questo è un libro lynchiano che sembra scritto da Hemingway.
Il significante è sempre abbastanza semplice ma il significato, se abbiamo la voglia e la pazienza di ricercarlo, complessissimo.
Murakami, a livello narrativo, eccelle in ogni situazione.
Nella descrizione dei personaggi e del loro passato ad esempio, veri e proprio inserti nel libro che valgono di per sè.
Le storie delle sorelle Malta e Creta, quelle del sergente Honda e del Tenente Mamiya, quelle, magnifiche, di Nutmeg, di suo padre e di suo figlio Cinnamon, sono vere e proprie perle.
Soprattutto ho trovato veramente da pelle d'oca i racconti di Mamiya e di Nutmeg, inumani e indimenticabili spaccati di guerra e atrocità davvero formidabili. Dall'uomo scorticato vivo nel deserto al massacro degli ufficiali giapponesi vestiti da giocatori di Baseball, dallo sterminio degli animali allo zoo allo spuntare dal mare del sottomarino, dal racconto dei giorni passati nel pozzo alla storia, bellissima e terribile, della prigionia in Siberia, con quel Boris che si fa sparare da 2 metri senza essere ucciso semplicemente perchè "Tu non puoi uccidermi". E quella maledizione che Boris lancia a Mamiya mi ha ricordato con un brivido il terribile racconto kafkiano de La Condanna. Ecco, il "guscio vuoto" che diventa Mamiya, ossia un corpo ormai incapace di provare emozioni è espressione che tornerà decine di volte, nei luoghi più disparati. E' ad esempio lo stesso guscio vuoto che diventò Creta. O quello che, forse, è diventato Kumiko adesso.
In realtà questo è un romanzo in cui sono decine e decine le cose che tornano, come se in qualche modo l'umanità fosse tutta collegata nel tempo e nello spazio.
Leggendo questo libro è come se noi avessimo in mano una piccolissima sfera che appena la sfioriamo ne forma una più grande che ci circonda.
Un microcosmo di piccole cose e piccole vicende che crea un macrocosmo gigantesco di possibili letture e significati.
Tutto è molto sobrio, perchè lo stesso Toru racconta i fatti con estrema semplicità, quasi come uno scienziato che prova ad analizzare le cose. E le emozioni, di conseguenza, sono sempre trattenute, sia quelle dei personaggi che le nostre. Ma sono le emozioni più trattenute, quelle che si fermano apparentemente sull'epidermide ad essere poi invece quelle che vanno più nel profondo del nostro inconscio.
Si potrebbero scrivere altre mille cose su un libro che tratta così tante tematiche (la politica, la storia, la solitudine, l'incapacità di cogliere i segni, la violenza, i traumi, persino la magia e, sottotraccia, gli abusi famigliari) e lo in così tanti stili (narrazione classica, sogno, lettere, racconti, articoli di giornale e altro) ma c'è un personaggio però che più di tutti non riesco a togliermi dalla testa.
May.
Una 17enne ribelle e probabilmente psicolabile ma così vera, tenera e indifesa che ogni cosa che fa e dice senti un volergli bene che trascende le pagine del libro.
May e le sue parrucche.
May che fece morire un ragazzo chiudendogli gli occhi.
May che dice le cose semplicemente, come una bambina, ma ogni volta che dice qualcosa sembra conoscere il senso della vita.
May che si chiede se nel caso in cui noi fossimo immortali staremmo tutto il giorno a pensare e farci domande. La filosofia, la psicologia, la logica, la religione, tutti discorsi che affrontiamo solo perchè un giorno moriremo, perchè invecchiamo, perchè deperiamo.
May che poi un giorno andrà via.
E rivelerà infine che soltanto all'apparenza lei è sempre felice, svampita e senza pensieri. Perchè in realtà piange, piange spesso.
E forse una notte le sue lacrime alla luna diverranno l'acqua tornata in un pozzo.
May guarda uno stagno ghiacciato e pensa alle anatre, a dove saranno volate via.
Fece lo stesso pensiero, e alla sua stessa età, anche un altro ragazzo.
Si chiamava Holden.
Chissà, magari insieme sareste stati bene.
E magari anche qualcun altro starà di nuovo bene insieme, solo il tempo lo dirà.
Tanto il mondo, finchè ci sarà un uccello a girare le viti del suo meccanismo, andrà avanti in eterno.
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