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Tutti hanno messo il proprio nome.
Tranne uno, un Anonimo restato poi tale.
E la cosa strana non sta solo nel fatto che sia stato l'unico Anonimo, ma anche perchè fu l'unico ad indicare UN solo libro, perlopiù sconosciuto.
Insomma, tra una marea di gente intervenuta e più di 400 libri citati
un unico Anonimo.
un unico commento con un unico libro
un libro sconosciuto.
Di uno scrittore sconosciuto poi, morto suicida a 26 anni.
E nemmeno un romanzo, 12 racconti.
Tutto troppo strano e affascinante. E con la buffa immagine e sensazione che forse quel messaggio l'abbia scritto proprio Pancake, lo scrittore di quel libro, non potevo far altro che andarmelo a cercare
Ho sempre creduto che ogni cosa debba essere chiamata col proprio nome.
Forse è proprio per questo che non ho mai provato a scrivere sul serio, per questa mancanza di esperienza, non esperienza di scrittura, ma esperienza di vita passata a sapere il nome delle cose.
Breece D'J Pancake di anni su questa terra ne ha passati pochi, solo 26, prima che quella notte decidesse che probabilmente erano persino troppi, ma questi pochi anni gli sono serviti per conoscere il mondo che lo circondava in maniera così viscerale, assoluta e completa che avrebbe potuto descrivere anche il colore cangiante di una vespa innamorata usando non le giuste parole, ma quelle vere.
Realismo si diceva una volta, ma io ho sempre visto questa parola come uno stile, come una cifra autoimposta, come una tecnica.
Trovo invece che quello di Pancake non sia uno stile, non abbia niente a che fare con la scelta del modo con cui dire le cose, nè con la denuncia, nè con la voglia di rappresentare la società o il mondo in cui vive.
Trovo che quello di Pancake sia un realismo necessario, intimo, naturale, non una maniera scelta, ma l'unica conosciuta. Mi fa pensare a quei pittori "primitivi", tipo Seraphine de Senlis che mettevano cose su tela senza saperne nulla di tecnica, di storia e di stili pittorici.
Pancake mi ha riportato così a Tozzi, un misconociuto scrittore italiano di inizio 900 così "puro", ingenuo ed immediato che qualsiasi cosa ne leggevo mi dicevo "sta semplicemente raccontando il suo mondo e sè stesso, non sa neanche come, ma lo sta raccontando".
Come la campagna toscana di Tozzi così è la Virginia di Pancake, una terra grezza popolata da uomini grezzi, una terra di mestieri, animali, istinti primordiali e null'altro.
Ma se in Tozzi avvertivo un grido di dolore, una non raffinata ma fortissima consapevolezza psicologica-esistenziale che lo portava a turbe e struggimenti, in Pancake non c'è niente di tutto questo, il suo realismo è così assoluto da rendere descrivibili e freddi anche i moti dell'anima.
Probabilmente perchè i racconti di Pancake non hanno speranza dentro e quando non c'è speranza anche tutte le altre cose, persino le più alte nell'universo, si appiattiscono e perdono d'importanza.
Pancake racconta degli uomini che conosce, di minatori, di meccanici, di cacciatori, di camionisti, una vita più stanca e ripetitiva dell'altra. Sono tutt'uno con l'ambiente dove vivono del resto, fatto di terra secca ma anche di tanti fiumi, di boschi e asfalto. Tutti hanno almeno un genitore morto, tutti hanno un ricordo da riportare alla mente, tutti vivono delle vite fatte di nulla che non portano a nulla.
Pancake prende un pezzo della loro vita, a volte nemmeno importante, e poi li lascia, così, nello stesso modo in cui aveva iniziato a raccontarceli.
Quello che sorprende in queste narrazioni è il senso fastidioso di perfezione che ti lasciano addosso. Pancake è essenziale, mai una parola di troppo con il paradosso però che in questa essenzialità, e qui torniamo a sopra, lui riesca a mettere dentro la ricchezza del mondo.
Perchè puoi pure descrivere soltanto la scena di un animale che si nasconde nell'erba ma se sai perfettamente quali sono le abitudini di quell'animale, se sai perfettamente il nome dell'erba in cui si è nascosto, se sai addirittura le sfumature di colore che quell'erba, muovendosi, riesce a mostrare, allora tu sei nato per raccontare le cose.
Pancake è nato per scrivere, è talmente assoluta la sua padronanza della lingua e della struttura e il suo riucire ad essere sempre allo stesso tempo così essenziale e completo che mette quasi paura.
Leggi i suoi racconti e anche se durano pochissime pagine ci metti tanto per entrarci dentro, perchè sei sempre (sor)preso in media res, come se quei nomi che leggi, quelle cose che racconta, quei ricordi che descrive tu li conoscessi già. Poi piano piano ogni racconto si mette a fuoco, acquisisce una sua struttura nell'assoluta non struttura del tutto (non c'è inizio e nemmeno fine a volte) e quando lo finisci ti arriva una sensazione strana, quella di credere che non potesse essere aggiunta una riga in più nè una in meno.
Nessuno riesce a scappare da quei luoghi, nessuno. E chi era scappato in qualche modo poi ci torna. Non è un caso che l'unico racconto dove il protagonista si immagina fuori, a Chicago, sia solo dovuto al sogno. Anzi, lo stesso titolo del racconto, La mia salvezza, lascia presagire che, alla fine, non c'è niente di meglio che restarsene là e che chi è andato via ottenendo magari successo poi alla fine si sia solo "ammalato" e, addirittura, tornando, rischia di ammalare gli altri. "Non la specie di germe che fa crescere le piante; piuttosto una malattia, un virus, qualcosa di contagioso".
E' il germe di "potercela fare".
Ci sono racconti di disarmante perfezione, come quello, cortissimo, Ora e ancora, nel quale stiamo soltanto dentro uno spazzaneve che fa andata e ritorno per un breve tratto di strada. Poco più di 6 pagine che raccontano l'eterno ripetersi delle cose. E il dolore di un figlio scappato via. E una chiave inglese che con un brivido si collega al racconto di unn serial killer. Magistrale.
Ma non ci sono racconti minori, tutti sono compiuti, tutti parlano di tutto e niente. Di piccoli drammi personali, come la donna che sogna un figlio ne Il Marchio ma poi sommessamente e con rassegnazione accetta il ritorno del mestruo (e che bellezza la desrizione del sesso tra le scimmie), di ricordi di infanzia poi distrutti dalla vita e dal dolore ("Ricordo la sua mano che stringeva una punta di freccia o svitava il dado di un cerchione ma non riesco a ricordarmi il suo viso" da Onore ai morti), di vite già finite a 14 anni (la struggente ragazzina de Una stanza per sempre), di ragazze che per amore o per mancanza di alternative accettano di passare la vita vicino a delinquenti (Come dev'essere), di gente talmente stupida e ormai disumanizzata che tortura e uccide animali senza batter ciglio (è incredibile come quasi sempre gli animali, di tutte le specie, siano associati alla morte, o procurata dai protagonisti o echeggiante nelle fredde ossa).
Non c'è mai una sola riga in cui Pancake voglia stupire od emozionare il lettore, mai.
Forse non è un caso che il suo primo racconto, quello che in Italia ha preso il titolo di tutto,, Trilobiti (pubblicato nel 1977, anno della mia nascita, brividi), parli proprio di un ragazzo appasionatissimo di fossili millenari. Credo che non ci sia metafora migliore per descrivere i personaggi e le vite della raccolta.
Questo era un uomo che conosceva tutti i colori dell'alba, tutte le sfumature della polvere, tutte i nomi delle piante e delle acque, tutti i piccoli gesti degli uomini.
E ce li restituisce in queste pagine.
Poi uno, dietro ad un suicidio, peraltro presunto, si immagina sempre mille motivi.
Non c'è niente di più sbagliato che fare congetture su vite autoterminate.
Ma quando ripenso a questo giovane ragazzo che mi racconta ogni piccolo dettaglio del suo mondo, ma al tempo stesso non è capace di immaginarsi un mondo altro, allora qualche domanda me la faccio.
E' come poter vivere una sola vita di cui conosci già tutto.
E allora, perchè andare avanti?
"Un rumore metallico. Si fermò. Fuoco. Si appiattì al suolo nel più nero terrore, con i piccoli aggrappati più stretti al pelo. Passi pesanti, sordi e irregolari le fecero ribollire il sangue. Sprofondò più in basso. Con il giorno e il pericolo che avanzavano, la paura le avvampava dentro mentre arretrava con cautela verso cespugli più fitti"
In 12 racconti che parlano semplicemente di uomini e delle poche ore della loro vita che a noi lettori è dato conoscere, alla fine è la paura di una mamma opossum terrorizzata che i suoi cuccioli possano essere uccisi l'emozione che mi voglio portare dietro di questo fantastico scrittore.
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